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Dove eravate il giornoin cui morì Ayrton Senna?

Sono passati venticinque anni dal quel 1. maggio 1994 in cui un incidente spezzò la vita all’asso brasiliano – Cosa lo rendeva speciale? La velocità, certo, il talento, ma anche quello sguardo
Paolo Galli
01.05.2019 06:00

Cosa rende un uomo speciale? Un talento, certo, un talento magari inedito, inavvicinabile. Oppure una caratteristica della sua personalità. Il coraggio? Sì. Anche la spavalderia. Capita che anche l’arroganza sia una dote. La cattiveria. Chissà perché nello sport la cattiveria è una cosa buona. Quello è bravo perché cattivo. Ma cosa vuol dire? È una questione di gergo, di abitudini, di similitudini guerrafondaie. A rendere speciale un uomo però può anche essere il suo sguardo sul mondo. Lo specchio che divide la sua anima da tutto ciò che la circonda. Ciò che contiene lo sguardo, quindi, ma anche ciò che esso esprime, che comunica. Lo sguardo può anche essere tutto, specie se abbinato a un particolare talento, a una sfumatura caratteriale. Lo sguardo di Ayrton Senna era uno di quegli sguardi destinati a restare. Lo si era capito sin da subito. Chi lo conosceva bene, chi lo ha cresciuto, se n’era reso conto probabilmente dopo un anno o due, quando già era salito sul primo kart, o chissà forse dopo poche ore. Ayrton era speciale.

Fissava il cielo, tanto vicino spesso da poterlo toccare. Dio. Tante volte lo ha citato. «Ho sentito la sua presenza e l’ho visto»

Faceva il pilota, guidava auto veloci, quando ancora quelle auto, quelle da Formula Uno, sembravano sbilanciate in avanti. Pericolose a prescindere, a prescindere da velocità, piste e avversari. Macchine infernali. Aveva il casco giallo. Nessuno lo aveva di quel colore, all’epoca. Lui sì. Lo riconoscevi subito. C’è chi ama ricordarlo sulla Lotus nera. Nera, con le scritte dorate, puntata di giallo, il giallo del casco di Senna. Nelle mischie capivi subito dove fosse, Ayrton. Tutti all’epoca si lasciavano rapire dal brasiliano, lo seguivano come se in pista l’unico da seguire fosse lui, come se fosse da lui, da lui soltanto, che ci si poteva aspettare qualcosa, una magia. Ayrton il mago. Non aveva quello spirito lì, di quello che vuole stupire. Sembrava più un obbligo morale, oltre che una questione di istinto, di una voglia di vincere che lo faceva essere sempre un metro avanti agli altri, sin dalla partenza. Poi i metri diventavano due, tre, e poi giri. Come quel 21 aprile del 1985. Il GP di Estoril. Pioveva a dirotto. Senna doppiò tutti, tranne Michele Alboreto, comunque distante più di un minuto. Era la sua prima vittoria in Formula Uno. Sul bagnato Senna era imbattibile. Disse, alla fine di quella gara: «Una volta provata la sensazione di vincere, non puoi più farne a meno».

Tutto era un «dovere». Una volta vinta una gara, doveva vincerle tutte. Lo doveva a se stesso e a chi lo circondava, al suo popolo, alla sua famiglia. Suo padre, quando ancora Ayrton era ragazzo, confessò, alla stampa: «Siamo preoccupati. Nel suo destino c’è la Formula Uno». L’orgoglio sfumava nella paura, di già. La sensazione, con il senno del poi, era che il destino, il destino di Ayrton Senna, fosse già scritto. Come se lui stesso se lo sentisse addosso. E non potesse fare altro che compierlo, andando fino in fondo. Continuando a fissare il cielo, tanto vicino spesso da poterlo toccare. Dio. Tante volte lo ha citato. Una volta Alain Prost sfruttò proprio questa vicinanza del rivale con il cielo per provare a colpirlo: «Crede in Dio? Si vede, infatti pensa di essere immortale», o qualcosa del genere. Un’equazione forzata, quella del francese, uno che per una vita si è fatto andar bene i panni dell’antieroe, del cattivo – etichette altrettanto forzate, forse. Senna comunque in quel caso rispose che, proprio perché credeva in Dio, sapeva di non essere immortale. Dio. «L’ho visto. Ho sentito la sua presenza e l’ho visto» (Adelaide, 1988). «Dio mi ha regalato questa corsa» (Interlagos, 1991). Come un lento avvicinamento, un rapporto in divenire.

Aveva negli occhi la velocità, un disegno, una vita, la dedizione e l’intelligenza, la responsabilità, la tristezza, il desiderio. Era un ragazzo ambizioso

Il 1. maggio del 1994, di prima mattina, Ayrton avrebbe chiesto «a Dio di parlargli, aprì la Bibbia e lesse un passo in cui c’era scritto che quel giorno Dio gli avrebbe fatto il dono più grande di tutti, cioè Dio stesso». Ne parlò con la sorella, che poi riportò il dialogo. Non se la sentiva di correre, si disse poi, troppo tardi. Dannato senso del dovere. Dannate vittorie. Non aveva ancora vinto, quell’anno, l’anno di Michael Schumacher. «Non correre, Ayrton, ritirati. Ritiriamoci. Andiamocene assieme a pescare», gli disse Sid Watkins, il dottore della pista, dei miracoli non sempre riusciti, un amico, un amico vero. Se solo lo avesse ascoltato. Se solo avesse dato retta a quella retorica improvvisata. Retorica, sì, perché uno come Senna mai avrebbe potuto ritirarsi. Da nulla. Da cosa? Era benestante, di buona famiglia, e a quel punto già era ricco, ricchissimo. Donne bellissime al suo fianco. La famiglia vicino. Aveva tutto. Al contrario del Brasile. Senna non era il Brasile, benché lo rappresentasse. Il Brasile non aveva niente, aveva solo lui, Ayrton. Qualcuno lo disse, nel giorno del suo funerale. «Il Brasile ha bisogno di cibo, istruzione e gioia. Oggi ci è stata tolta anche la gioia». Ayrton era bello, una bellezza da attore, nonostante le orecchie grandi, una bellezza anche vagamente malinconica. In questi casi, noi europei, spesso parliamo a vanvera di saudade. La saudade, o «saudagi» come improvvisiamo. Neppure abbiamo una parola per tradurla, figuriamoci capirla. Per lui forse era addirittura un’altra cosa. Quello sguardo.

Ayrton era bello, una bellezza da attore, nonostante le orecchie grandi, una bellezza anche vagamente malinconica

Quello sguardo è ciò che ha fatto sì che noi lo vedessimo – noi tutti, mica era una faccenda da esperti – da subito, come qualcosa di unico, di speciale. Aveva negli occhi la velocità, un disegno, una vita, la dedizione e l’intelligenza, la responsabilità, la tristezza, il desiderio. Era un ragazzo ambizioso, ma come se l’ambizione se la fosse trovata in dotazione, come se neppure l’avesse voluta, richiesta. Corteggiava donne da cui era comunque corteggiato. Sapeva di avere diritto a ogni possibile esperienza e sensazione. Sapeva a cosa andava incontro. Amava anzi studiarlo, prevederlo. Andava a osservare i luoghi degli incidenti altrui. Fu così nel 1990, quando il nordirlandese Donnelly uscì di strada a Jerez, sopravvivendo a un terribile impatto. Fu così, quello stesso weekend a cavallo tra aprile e maggio, a Imola. Fu proprio lui, Ayrton, a visitare per primo il giovane connazionale Barrichello dopo l’incidente del venerdì e fu ancora lui, il sabato, a salire sulla safety car e a trascinarsi, già consapevole, a ridosso della Simtek distrutta di Roland Ratzenberger. Suo coetaneo, l’austriaco, di cui sappiamo poco, ancora oggi. Sappiamo che è morto, che è morto a pochi metri – e a poche ore – da dove è morto Senna. Senna con addosso il suo casco giallo. Le carezze dolci della mamma, a quel casco giallo, quando tutto ormai era finito – «Nada pode me separar do amor de Deus», riporta la lapide, l’amore di Dio, che poi, a ben vedere, sta dalle parti di quello della madre, delle madri – quando un essere speciale ci aveva lasciato in eredità un ricordo indelebile. Già, dove eravate quel 1. maggio del 1994, il giorno in cui è morto Ayrton?