Ho un’idea ben fissa: il calcio delle botte

In comune con Fabrizio de André ho le poche idee ma peraltro ben fisse. Una di queste è il calcio innocente e feroce di un passato neanche troppo lontano dove si davano e ricevevano botte incredibili senza fare una piega. Non li posso più vedere i calciatori di oggi, quelli che nonostante l’occhiuta presenza planetaria delle telecamere, che ti contano anche i peli più reconditi, si buttano a terra per un colpetto a un alluce (forse con l’unghia pittata), tenendosi il volto come punti dalle api, o a volte il collo come per un taglio di coltello subìto in una taverna del porto. Naturalmente il porto e le sue meraviglie lo frequentano solo se digitale, in qualche videogame da noia alberghiera o sfogliando depliant per le vacanze da schiavetti con spritz che vengono concesse nell’intercapedine tra la banca e lo schermo.
Non si torna indietro, dicono tutti, ipnotizzati dalla tecnologia e con l’acquolina del deserto, dove seccano gli alberi e fioriscono i dollari. Ma questo lo dite voi: io torno indietro eccome, non avendo bisogno di giocare o dell’aria condizionata. Posso dormire in un bosco vero e senza televisione, immaginando le disperate entrate in scivolata e la piega amara delle labbra verso ruffiani e simulatori. Io torno indietro a quando, piuttosto che mostrare di aver accusato il duro colpo rifilato da un avversario, mi rimettevo in piedi e guidavo fino a casa con Springsteen nell’autoradio, No surrender, nessuna ritirata nessuna resa. E come me, tutti, dalla Quarta al Mondiale, con alcuni esseri mitologici che in Sudamerica provavano nuove mosse per essere più duri dei duri.
In attesa del prossimo passo evolutivo - forse la sparizione chimica della sudorazione che fa tanto ponteggio, e si sa che calli e sporcizia sono disdoro - ecco, in attesa coltivo lo stoicismo in maniera massonica con quei tre o quattro sognatori disperati, in attesa che dia frutti, anche se ancora nessuno ha intenzione di affidarmi una scuola-calcio, pensando di far bene.