Racconti

La neve del novecento

La magìa bianca e un pallone: i ricordi tornano a un partita indimenticabile
Giorgio Genetelli
08.12.2021 09:35

Non sono molti i giorni così, in inverno specialmente. Ognuno ha la sua memoria e nei buchi precipitano i ricordi. Questo caso è rimasto aggrappato e mi fa ridere quando i fastidi scacciano il sonno e il mattino è ancora nascosto dalle parti di Baires.
L’allenatore era un teppista e i ragazzi lo ammiravano per la tattica: offendere coi brocchi e passarla a quelli bravi, due o tre, non di più. Il paese era un come un convento disperso, poco soleggiato e ventoso. Quel giorno marcava neve e per complicarla si sarebbe giocato sul far della sera, che in dicembre è buio da un pezzo. Per l’occasione, sulla maglia avevano stampato col pennarello: FC Preonzo 1931. Un anatema. L’occasione era la conquista del sesto posto in classifica che in primavera li avrebbe promossi per la prima volta. L’avversario era primo e la teoria era di malmenarlo dal primo minuto e sperare che il Beppe la buttasse in gol con una delle sue invenzioni solitarie.
Dopo venti minuti erano già avanti di due gol con il sistema previsto, il Beppe appunto. Poi gli altri ne avevano marcato uno in mischia. Alla pausa l’allenatore disse che era meglio essere in vantaggio, come concetto di base. Al Beppe ordinò di non azzardarsi a tornare in difesa a perdere tempo, come quando aveva salvato un gol fatto arretrando fin sulla linea di porta a spazzare.
An vei sempre almen set in la noso mità cam, aggiunse.
Gli altri ricominciarono ad attaccare e i nostri a mollare calci. Forse l’arbitro aveva preso giù qualcosa di guasto alla pausa perché cominciò a fischiare falli assurdi, sordo e muto alle proteste. Alla mezzora aveva sventolato cartellini gialli e rossi in quantità, uno perfino al mite Beppe che era il solo fuori dal gioco e non avrebbe mai schiacciato neanche una formica.
In otto contro otto, il campo era diventato immenso. Aveva preso a nevicare e le luci dei fari erano stelle morenti. Il gioco era praticamente immobile a causa dei fischi dell’arbitro. Qualcuno del pubblico era già andato a casa per non tardare a cena. Era chiaro che il risultato non sarebbe cambiato più, eppure andavano avanti oltre il tempo regolamentare. Sorse il dubbio che l’arbitro volesse in tutti i modi allungare la partita per trovare il modo di sospenderla e poi annullarla a tavolino.
La neve era alta due dita e le due squadre, a furia di espulsioni e crisi individuali, ridotte a una manciata di ragazzi dispersi, uniti nella malasorte della follia altrui. Il Ciceto si mise a piangere per il freddo e fu espulso. Il Gian insorse brandendo L’Etica di Spinoza, che teneva sempre in panchina, e poi calciò il pallone nel crepuscolo indistinto della campagna innevata.
L’arbitro considerò che senza il pallone l’affare poteva dirsi concluso e a nulla servì che gliene portassero un altro.
Il pallone è sempre uno solo, spiegò agli ultimi superstiti.
Fischiò la fine con tanto impeto che dal tetto della baracca si staccò un po’ di neve.
Si beccò uno schiaffo dall’allenatore, nessuno però lo rincorse e scomparve verso la campagna, camuffato nel buio.
Sono andato a vedere proprio qualche giorno fa: negli annali della federazione non si trova traccia né di quella partita né dell’arbitro. In paese, quando chiedo, cercano di confortarmi.
Ora dormo.