Cinema

L'età dell'innocenza

Il film di Martin Scorsese è un capolavoro
Angelo Lungo
01.01.2022 11:41

Ispirata da un dipinto di Joshua Reynolds del 1785, la scrittrice statunitense Edith Wharton pubblica nel 1920 il romanzo “L'età dell'innocenza”. Martin Scorsese, da sempre colpito dalla storia, nel 1993 fa uscire nelle sale il film tratto dal libro.

La trama: Newland Archer (Daniel Day-Lewis) è un giovane avvocato, sicuro di sé, pienamente inserito nel suo contesto sociale. Vive di certezze e non ha nessun dubbio. Fino a quando non incontra la contessa Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer). Una donna: colta, intelligente, una bellezza spontanea che provoca una sensazione di smarrimento dapprima lieve e poi dirompente. Si tratta di una lontana parente della sua promessa sposa: May Welland (Winona Ryder). L'attrazione tra i due è travolgente, seppure rimane sospesa. È fatta di sguardi, di dialoghi metaforici, di imprecazioni e sospiri. Ma la realtà è connotata da rigide regole sociali. L'ambiente borghese non ammette deviazioni. La passione che diventa sentimento, nulla può contro quello che deve essere, ne va della sicurezza e del prestigio. Ora, qui e adesso, come è stato stabilito: nessun altrove.

Archer, come lui stesso afferma, intravede dei lampi di vita vera, ma è costretto a viverne una falsa.

In guisa icastica, il regista spiega: “È il film più violento che abbia mai realizzato. Una cosa che mi ha sempre colpito molto profondamente, crescendo ma anche in età adulta, è la brutalità che si nasconde dietro le buone maniere”.

La rappresentazione delle persone, dell'ambiente rasenta la perfezione. La meticolosità esteriore è voluta. Intende svelare, in maniera feroce, l'ipocrisia: tutti sono chiamati a recitare il ruolo sociale prestabilito, non possono abbandonarsi o esprimere se stessi. L'eleganza è speciosa: comunica un riflesso e non ha la consistenza dell'anima.

Il film parla di conformismo e libertà. Il conformismo dei rapporti, le convenzioni che diventano inderogabili, i riti che devono essere pedissequamente eseguiti. Pena l'esclusione, l'emarginazione: tipico delle comunità autoreferenziali. Manca la libertà, quella esagerata, che spinge l'individuo a sperimentare il suo essere. Il desiderio che stimola la passione a oltrepassare il territorio canonico, quando diventa stantio e opprimente.

La violenza più pericolosa è quella che si insinua, si esprime sottotraccia. È sottile e quando pervade la società, la cultura e la psicologia delle persone, diventa oltremodo potente e vessatoria.