Una maglia da indossare

Sicuro: ne ferisce più la penna che la spada. I puristi del dialetto non ci stanno. La frase scelta dal Lugano, per celebrare la finale di Coppa, “Sem semper chi” è sbagliata. L'invocazione, che aveva l'obiettivo di richiamare il popolo ticinese alla prossima sfida che assegna il trofeo, è errata. La grafia e gli accenti non sono corretti e ortodossi. Il termine “semper” si usa nel dialetto lombardo e precisamente in quello milanese. E molti italiani sono arrivati nelle curve sportive ticinesi. In parte l'arcano sarebbe svelato. Ma la tradizione richiederebbe un altro modo di scrittura. Il dialetto ha una sua forza, è un sistema di un luogo specifico e con dei confini precisi, ma ha dei limiti rispetto a un altro sistema che si è imposto. Umberto Eco sosteneva che al dialetto “si ritorna, e con amore, per ritrovare il sapore e il tepore di una infanzia perduta e le nostre radici”. La lingua è un potente fattore identitario, rappresenta la cultura di un popolo, ma ne è un solo elemento. E le lingue, nascono, vivono, si modificano, si evolvono e poi muoiono. Acclarato che la suddetta frase non è scritta correttamente, la questione può essere posta in altri termini. L'idea era quella di chiamare a raccolta i tifosi luganesi e non solo. La polemica sull'identità è sterile e speciosa. Il Lugano rappresenta degnamente il Cantone. Lo fa perché i suoi risultati sono di livello. Lo fa perché la squadra lotta, resiste, si impegna e suda. Lo fa perché i bianconeri hanno impresso un loro stile. L'allenatore è l'emblema della squadra: creativo eppure realista. Tutto questo dovrebbe bastare. La fallibilità e la sua accettazione rende le persone umane. Poco importa che la frase sia sbagliata, da sottolineare è quello che intende significare, il messaggio che vuole veicolare, l'emozione che presuppone di suscitare. La maglia bisognerebbe comprarla, indossarla e portarla a Berna.