Spettacoli

Federico Buffa: «L'immigrazione ticinese ha fatto vincere la Coppa del Mondo all'Uruguay»

Il più famoso storyteller italiano a Lugano per «La Milonga del Futbol»: «Attraverso il calcio possiamo raccontare i fenomeni sociali e la storia di un Paese»
Mattia Sacchi
28.01.2024 06:00

In Argentina dicono che gli inglesi hanno inventato il calcio, mentre loro l’amore per il Gioco. Proprio per questo non poteva esserci giorno migliore per Federico Buffa per tornare al Palazzo dei Congressi di Lugano il prossimo 14 febbraio, San Valentino appunto, con «La Milonga del Futbol», uno spettacolo dove il più famoso storyteller italiano celebra l’amore per il calcio attraverso la vita di grandi calciatori argentini, le cui imprese sportive si intrecciano alla storia argentina ma anche di quella italiana, alla quale tutti e tre i protagonisti sono indissolubilmente legati.

Lo sport che accompagna la vita come un tango, con la sua passione e quel velo di tragedia che rende magico ogni passo. E in effetti la musica ha sempre caratterizzato le opere teatrali di Buffa che, ironia del destino, l’ultima volta che è stato in Ticino lo ha fatto a Locarno in «Amici Fragili», sempre in collaborazione con GC Events, dove ha immaginato l’incontro, avvenuto realmente ma i cui dettagli sono ignoti a tutti, tra il cantautore genovese Fabrizio De Andrè, di cui lo scorso 11 gennaio si sono celebrati i 25 anni dalla scomparsa, e «Rombo di tuono» Gigi Riva, il leggendario attaccante che riuscì a portare lo scudetto a Cagliari e del quale in questi giorni il mondo del calcio piange la morte.

«La Milonga del Futbol» è uno spettacolo a cui tengo molto, il primo scritto interamente da me – racconta «l’avvocato», come viene chiamato dai fedelissimi che lo seguono sin dai tempi delle telecronache di basket -. Forse è proprio per questo che all’inizio era troppo lungo e nel corso della tournée abbiamo dovuto adattarlo per asciugarlo e renderlo più funzionale ai tempi teatrali. Un viaggio dalla Sardegna all’Argentina, accompagnati da uomini geniali, drammatici e, per quanto in modo molto diverso dal Gigi Riva che ho portato a Locarno, fragili. Uomini diventati icone del calcio, le cui vite sono collegate tra loro e riescono a raccontare non solo la storia ma anche il sentimento di un intero popolo».

Perché, come dice Mourinho in una delle sue citazioni più famose, chi sa solo di calcio non sa niente di calcio. «Esattamente. La storia di Renato Cesarini, che nasce in Italia ma parte per l’Argentina con i suoi genitori quando ha solo un anno, è un modo per parlare dell’immigrazione non solo degli italiani ma, ad esempio, anche dei ticinesi: basti pensare a Maspoli e Ghiggia, determinanti per far vincere il Campionato del Mondo all’Uruguay. Un’immigrazione che comincia nel 1870, agli albori dell’unità d’Italia, quando l’Argentina aveva solo un milione di abitanti: voglio quindi raccontare di cosa succedeva a queste persone che si ritrovavano in un territorio molto diverso da quello di oggi, che aveva bisogno di persone che lo popolassero e si dessero da fare. Cesarini rappresenta perfettamente quel figlio di italiani che cresce in Argentina, diventa un grande giocatore e torna nel Paese natio per giocare per la Juventus, dove vince 5 scudetti in 5 anni. Ma poi, come tutti gli italiani d’Argentina, è costretto a scappare di nuovo per l’avvento di Mussolini e per evitare il rischio di andare in guerra».

«Ed è ancora lui a scoprire Omar Sivori, altro grande campione che vestirà bianconero proprio grazie a lui. Sivori sarà poi colui che consolerà Maradona, che a differenza dei primi due non è integralmente italiano ma solo per parte di madre, quando verrà escluso dal mondiale del 1978. Tre giocatori che partono dall’Argentina per arrivare in Italia, vincendo dieci scudetti in tre e che assieme ci portano dall’inizio del ‘900 fino alla fine del secolo scorso».

È comunque curioso come, per quanto sia uno studioso del tango, Federico Buffa per il suo spettacolo abbia tuttavia scelto la Milonga, considerata l’habanera dei poveri, che forse poco si presta alle gesta dei calciatori narrati. «Oltre al fatto che trovo la parola tango un po’ abusata, volevo scegliere un genere musicale che desse anche l’idea di un luogo: spesso di dice «andare in milonga» e per questo mi sembrava rendere meglio le suggestioni che volevo trasmettere. Ma ovviamente ci saranno dei tanghi e anche un paio di blues, oltre a un passaggio molto evocativo con l’Adagietto di Gustav Mahler durante la parte legata a Maradona».

Se parliamo del Diez in maglia argentina, impossibile non pensare all’incredibile goal contro l’Inghilterra al mondiale ’86, che a molti ricorda proprio un tango. Che però è una danza particolarmente complicata che necessita di un grandissimo studio, mentre l’incredibile azione di Maradona, solo contro tutta la difesa inglese, sembra dettata dall’istintività, in un momento di geniale follia. «È vero, il tango o lo sai ballare o meglio lasciar perdere, perché la figuraccia è dietro l’angolo. Ma c’è una coordinazione, una creatività e soprattutto un’evoluzione che parte da lontano, quando era bistrattato dai potenti e santificato dal popolo, che forse rappresenta appieno lo spirito che ha contraddistinto la vita di Maradona. Una danza che nel corso del secolo scorso diventa un fatto identitario perché, come spiego nello spettacolo, sono gli immigrati arrivati dall’Argentina che contribuiscono a definirlo. Ad esempio sono i tedeschi, gli ultimi arrivati, a portare il bandoneon, che sostituisce il flauto e che porta il tango dal punto di vista artistico e musicale in un’altra dimensione».

Vista con gli occhi dei tre grandi campioni, ci si può immergere in un’Argentina diversa da quella che conosciamo. «Le ricerche e lo studio delle loro storie mi hanno permesso di scoprire un paese inaspettato. Negli anni ’20 Buenos Aires dev’essere stata di un fascino spaventoso, la capitale di un impero che non c’è mai stato, con così tante persone in giro che ogni sera i teatri erano costretti a fare repliche fino a tarda notte per accontentare tutti, per poi far la coda ai ristoranti e uscirne che ormai era quasi mattina. Chi dice che New York sia la città che non dorme mai è perché non è mai stato a Buenos Aires. Per non parlare del melting pot che si trovava: il quartiere della Boca nel post bellico era una vera e propria zona franca, dove arrivavano tutti, dai nazisti scappati dalla Germania a chi dalla guerra era scappato ancora prima. Non importava più da dove venivi e cosa avevi fatto, ma chi eri in quel momento».

A proposito di chi sei e chi rappresenti: ma se Maradona si fosse comportato nel corso della sua carriera in modo un po’ più professionale, ad esempio come Lionel Messi, sarebbe stato così tanto amato, visto che con ogni probabilità avrebbe avuto pure molti più trofei in bacheca? «Neanche vagamente. Maradona è per madre italiano, ma l’altro 50% è un indio: questo cambia tanto. Veniva portato da piccolo al luna park a guardare combattere il pugile Carlos Monzon, meticcio come lui, e si immaginava di poter avere anche lui quella straordinaria forza. Che effettivamente ha avuto, più forte di quello gli hanno fatto e che si è fatto nel corso di una vita alla quale non avrebbe potuto resistere altrimenti. Una vita segnata da incubi perenni, quelli che ha cominciato ad avere a tre anni dopo essere caduto in un pozzo pieno di escrementi, e nella quale si possono trovare tutte le componenti umane, tanto da essere quasi ultraterrena. E che lo hanno reso assolutamente unico».