Ha vinto tutto, facendo sognare

Nessuno come lui, né prima, né dopo. Silvio Berlusconi è stato, e rimarrà, unico nella storia del Milan e non c’era bisogno della sua scomparsa per rendersene conto. Perché ha vinto più di qualsiasi altro presidente rossonero, ma soprattutto per come ha vinto, al di là del risultato, cambiando una squadra e di riflesso l’intero mondo del calcio italiano, senza il timore di sfidare l’ironia e la diffidenza con cui fu accolto nel 1986. Ricordare, per credere, il suo debutto a Milanello quando sbarcò da un elicottero bianco e agli occhi degli incuriositi giocatori di Liedholm sembrava un marziano perché prometteva di costruire un Milan «capace di vincere in Italia, in Europa e nel mondo, padrone del campo e padrone del giuoco».
Più avanti di tutto e tutti
I sorrisini per quella «u» nella parola «gioco», trattenuti a fatica da Baresi e compagni, si moltiplicarono tra i tifosi avversari quando dagli elicotteri, diventati tre, sotto un cielo grigio scesero sul prato dell’Arena i primi cinque acquisti del nuovo Milan: Giovanni Galli, Dario Bonetti, Daniele Massaro, Roberto Donadoni e Giuseppe Galderisi. Era il 18 luglio 1986, l’inizio di una nuova era in cui tutto, secondo Berlusconi, doveva fare spettacolo in campo e fuori, con la massima attenzione anche per i più piccoli particolari come il colore dei calzettoni della divisa da gioco, che non dovevano più essere neri ma bianchi perché più televisivi. Quel Milan, ereditato da Giussy Farina sull’orlo di un possibile fallimento, faticava ad arrivare al quarto posto che allora voleva dire fallimento e non Europa, ma Berlusconi che sognava in grande già immaginava un campionato allargato a molti club europei, anticipando la futura riforma della Champions League. Una delle sue tante intuizioni da visionario, capace di inventare nuovi termini, diventati poi familiari, come «turnover» in vista degli organici allargati, oppure come «team manager» per definire una figura fin lì mai esistita di dirigente a contatto con la squadra. Un presidente che era sempre più avanti di tutto e di tutti, capace di trascinare chi gli stava al fianco con il suo entusiasmo e un’autentica passione, che nel suo caso faceva davvero rima con ambizione. E proprio perché voleva essere vicino alla squadra era sempre pronto a regalare quelli che lui considerava soltanto «consigli» agli allenatori, a costo di essere ricambiato da qualcuno di loro come successe con Liedholm, capace di replicare con ironia quando disse testualmente: «Presidente bravo, lui capisce calcio, lui stato allenatore Edilnord».
Con Capello sfida i tifosi
Mentre Liedholm fu il primo a pagare la sua fretta di vincere, Sacchi è stato il primo a regalargli i successi che sognava: lo scudetto del 1988, la coppa dei Campioni del 1989 e subito dopo il titolo intercontinentale. La sua vera scommessa vincente, però, è stata la scelta di Fabio Capello che fece crescere come manager e poi promosse allenatore, proprio al posto di Sacchi, sfidando i cori dei tifosi milanisti che a San Siro cantavano «Noi tifosi del Milan/ abbiamo un sogno nel cuore/ Arrigo allenatore/ Arrigo allenatore». Era la fine della stagione 1990-‘91 e sembrava anche la fine del Milan, senza scudetto, eliminato dal Marsiglia in coppa dei Campioni e squalificato dall’Europa. Invece, quel Milan considerato finito da Sacchi, con Capello vinse tre campionati consecutivi senza il miglior Van Basten, e il 18 maggio 1994 festeggiò un autentico trionfo ad Atene, con il 4-0 contro lo strafavorito Barcellona di Cruijff, centrando l’unica doppietta scudetto-coppa dei Campioni nella storia del Milan. Proprio quella sera, però, Berlusconi a Roma entrò ufficialmente in Parlamento e guarda caso in seguito a quella scelta politica, senza la sua presenza a tempo pieno, il Milan ha vinto di meno. Dopo i 16 titoli nei primi otto anni tra il 1986 e il 1994, ne arrivarono altri 13 ma in ventuno stagioni, fino all’ultimo successo nel 2016 a Doha nella Supercoppa italiana ai rigori contro la Juventus. Erano passati trent’anni esatti da quel suo debutto nella sala del caminetto a Milanello e nessuno discuteva più Berlusconi, capace di farsi rimpiangere dai tifosi rossoneri prima ancora di far piangere tutti quelli che hanno lavorato e vinto al suo fianco, a cominciare dal fedelissimo «braccio destro» Adriano Galliani che insieme con lui ha realizzato l’ultimo capolavoro, portando per la prima volta il Monza in serie A. La dimostrazione finale che Berlusconi è stato davvero unico.