L’intervista

«Un sogno lungo quasi 20 anni: lascio davvero senza rimpianti»

Il momento di dire basta è arrivato anche per Alessandro Chiesa, oramai ex difensore dell'HC Lugano
Flavio Viglezio
05.04.2022 06:00

Il momento di dire stop è arrivato anche per Alessandro Chiesa. A 35 anni e dopo 19 stagioni ai massimi livelli, il difensore ha deciso di voltare pagina. Resterà nel mondo dell’hockey, lavorando con i giovani del Lugano, e avrà tempo di terminare i suoi studi universitari. Oggi è però tempo di ricordi e di bilanci.

Alessandro Chiesa, come si capisce che è giunto il momento di dire basta con l’hockey giocato?
«Per quel che mi riguarda è stato un processo piuttosto lungo. Sapevo già da un po’ che non rientravo più nei piani sportivi del Lugano: per proseguire la carriera avrei allora dovuto trasferirmi oltre Gottardo. Nel frattempo con il club bianconero – con il quale il rapporto è sempre stato schietto e corretto – abbiamo iniziato a valutare le opportunità di una mia eventuale riconversione. Anche per progetti legati alla mia vita privata, alla fine ho deciso di dire basta e di rimanere a Lugano. Confesso che mi ha stuzzicato l’idea di trasferirmi all’Ajoie di Julien Vauclair, ma avrei dovuto partire... con le valigie sempre in mano. Fare continuamente andata e ritorno tra il Giura e il Ticino non appartiene alla mia filosofia. Quando gioco per una squadra, mi piace identificarmi con la realtà in cui vivo. Non ero insomma pronto per un’avventura di questo tipo. La mia famiglia è qui e inoltre non volevo interrompere gli studi alla SUPSI: avevo già fatto parecchia fatica a rimettermi sui libri (ride, NdR)».

Il Lugano non ti ha offerto un nuovo contratto nonostante una stagione positiva a livello personale. Ci sei rimasto male?
«Sinceramente no, so che decisioni di questo tipo fanno parte del gioco. A dire il vero lo avevo capito già da un po’, ma io non ho mai preteso niente. Non si guadagna un nuovo contratto solo perché si gioca da tanti anni in un club. Non l’ho insomma presa sul personale: durante la pausa olimpica ho semplicemente deciso che questa sarebbe stata la mia ultima stagione e ho fatto di tutto per terminarla al meglio. Mettendoci grande impegno, come ho sempre fatto in carriera».

Una carriera da professionista durata ben 19 anni: se lo immaginava, Alessandro Chiesa, un percorso così lungo ai massimi livelli?
«Ho cominciato a giocare a hockey da bambino, a Biasca, e si trattava di un passatempo per restare con gli amici. Ci frequentavamo a scuola e poi andavamo insieme sul ghiaccio. Con il tempo l’hockey si è trasformato in una passione incredibile, ma da ragazzino mai avrei pensato di diventare un professionista. Quando però ho cominciato ad annusare l’aria della prima squadra, ad Ambrì, ho dato il cento percento per riuscire ad impormi e per un ventennio l’hockey è stata la mia vita».

Personalmente ho dovuto lavorare tanto per rimanere al passo con i tempi

Un hockey, quello di 20 anni fa, molto diverso da quello attuale...
«Certo, oggi rispetto ad allora è tutto molto più professionale. Inoltre c’è una maggiore intensità, si disputano più partite in una stagione e il pattinaggio è diventato sempre più importante. Personalmente ho dovuto lavorare tanto per rimanere al passo con i tempi. Quando mi sono trasferito allo Zugo, ho avuto la fortuna di poter lavorare con un preparatore atletico che mi ha aiutato tanto per permettermi di impormi in Serie A. L’introduzione della tolleranza zero è stata una grande sfida per me: non sono mai stato rapidissimo (ride, NdR), ma ho dovuto lavorare tanto sulla velocità».

A proposito: quanto è stato importante il trasferimento a Zugo per lo sviluppo sportivo e umano di Alessandro Chiesa? 
«Dopo il titolo vinto con il Lugano nel 2006, ho iniziato ad accusare problemi a un’anca. Ho faticato a riprendermi da questo infortunio e ho vissuto momenti non facili in bianconero. Ero molto giovane e spesso ero solo il sesto o il settimo difensore. Ho vissuto il passaggio allo Zugo come un’ultima spiaggia: mi sono dato due anni di tempo per ritagliarmi un posto da titolare in Serie A. Ho avuto la fortuna di trovare un allenatore, Doug Shedden, che mi dato fiducia e un assistant-coach – Waltteri Immonen – che ha lavorato tantissimo con me, per farmi crescere. A Zugo ho vissuto una splendida esperienza anche sul piano umano: ho imparato una lingua, sono entrato a far parte del giro della Nazionale e proprio in quegli anni mi sono sposato. Sarò sempre grato allo Zugo per l’opportunità che mi ha concesso».

La vita di uno sportivo è fatta di gioie e di dolori. Qual è stata la più grande soddisfazione vissuta in carriera da Chiesa? 
«La risposta è fin troppo facile: il titolo nazionale conquistato nel 2006. Era il mio primo anno in bianconero e fu decisamente un inizio col botto. Ricordo ovviamente l’incredibile rimonta nei quarti di finale contro l’Ambrì Piotta, in cui eravamo in svantaggio per tre a zero. Quante emozioni! Non giocavo tantissimo, ma festeggiai con grandissima gioia quel titolo. A livello di emozioni, appena sotto, ci sono i playoff del 2016, quando tornammo dopo tanti anni in finale. Se penso al rigore di Furrer e al boato della Cornèr Arena, nella gara decisiva di semifinale con il Ginevra, mi vengono ancora i brividi. Al termine di quell’incontro ero morto, stavo giocando con un infortunio piuttosto serio. Rientrai subito nello spogliatoio senza nemmeno fare il giro di pista con i miei compagni. Non ne potevo più, ma ero felicissimo».

E il più grande dolore?
«Anche qui non ho dubbi: l’infortunio nel 2018 a Davos che mi impedì di giocare i playoff. Quella rottura del tendine di Achille fu terribile da accettare. Era la penultima partita della regular season e non riuscivo a credere a ciò che mi stava accadendo. Fu durissima fino alla fine del campionato, a casa ero semplicemente intrattabile. Basta chiedere a mia moglie Manuela, per conferma (ride, Ndr). Il nostro allenatore, Greg Ireland, cercò di coinvolgermi il più possibile nella vita di squadra di quei playoff. Andavo in trasferta con il gruppo e il coach mi aveva affidato dei compiti di osservatore. Ma mi mancava il ghiaccio, condividere le emozioni della partita con i miei compagni».

Nessun rimpianto. Sono felicissimo della mia carriera. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere un altro titolo svizzero, più da protagonista rispetto a quello del 2006

Ha dei rimpianti, Alessandro Chiesa?
«No, nessun rimpianto. Sono felicissimo della mia carriera. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere un altro titolo svizzero, più da protagonista rispetto a quello del 2006. Ma va benissimo anche così, mi sono goduto ogni momento della carriera. Ho avuto l’opportunità di disputare delle finali, compresa quella alla Coppa Spengler, un torneo particolare ma molto speciale. No, lo ripeto, non ho nessun rimpianto. Ho solo un sogno non realizzato: mi sarebbe piaciuto davvero tanto disputare un Mondiale con la nazionale rossocrociata».

Oltre a Doug Shedden, quali allenatori sono rimasti nel cuore di Ale Chiesa?
«Mi sono trovato molto bene con Greg Ireland. Io ero il capitano della squadra, lui non mi conosceva granché, ma abbiamo subito instaurato un ottimo rapporto. Nello spogliatoio era un duro, ma portava avanti le sue idee. E con lui nel 2018 siamo arrivati ad una sola vittoria dal titolo. Ricordo con piacere anche Patrick Fischer: ai tempi era molto giovane, forse gli mancava ancora qualcosa a livello tattico, ma sapeva gestire un gruppo. E non ha avuto paura di operare dei cambiamenti importanti».

Cosa ha significato essere il capitano del Lugano per quattro stagioni?
«L’ho sempre detto e lo ripeto oggi: è stato un grande onore. Il primo anno non è stato facile assumere questo ruolo ed infatti il mio rendimento sul ghiaccio ne aveva risentito. Poi ho imparato tante cose e credo di averci sempre messo la faccia. A volte, dopo certe sconfitte, non è stato evidente, ma rispondere alle domande dei media fa parte del gioco, del nostro mestiere».

Come vede il suo futuro, Alessandro Chiesa?
«Sono davvero contento di rimanere a Lugano e di poter lavorare con i giovani. Mi è sempre piaciuto, fa parte del mio carattere. Inoltre ora avrò più tempo per portare avanti i miei studi in Leisure and Management alla SUPSI. Per me è la situazione perfetta: posso rimanere nel mondo dell’hockey sia sul ghiaccio sia a livello amministrativo. Avrò la possibilità di scoprire altri aspetti di questo sport che è stata, e rimane, una grandissima passione».