Il personaggio

«I miei record non sono tutto, ora voglio esplorare il mondo»

A tu per tu con Daniel Arnold, alpinista svizzero – Le sue rapidissime scalate, per giunta senza corda né assicurazioni, gli hanno permesso di collezionare diversi prestigiosi record di velocità
© Photopress/Mammut/Thomas Senf
Alex Isenburg
02.06.2024 17:00

In termini metaforici scalare una montagna indica un’impresa difficilmente realizzabile. C’è chi invece, come Daniel Arnold, in cima alle più grandi vette si issa per davvero. Le sue rapidissime scalate, per giunta senza corda né assicurazioni, gli hanno permesso di collezionare diversi prestigiosi record di velocità.

Dani - come da tutti viene chiamato - ha iniziato ad arrampicarsi all’età di circa 18 anni e più di una decade or sono ha deciso di abbandonare il suo lavoro di meccanico e di gettarsi a capo fitto nell’avventura legata al mondo della montagna. «Provo un senso di libertà difficilmente descrivibile - racconta - quando mi trovo totalmente immerso nel nulla non ci sono regole. Da un certo punto di vista ho la sensazione di poter fare tutto quello che voglio. Dall’altro lato, c’è la necessità di essere responsabile, nei confronti di te stesso ma anche di chi ti sta a fianco». Oltre a rappresentare ormai la sua professione, l’alpinismo ha un significato molto profondo per lui. «Dimostra che tutto è possibile e non bisogna porsi dei limiti. Trovo che sia uno sport onesto: gli errori mettono a nudo le tue debolezze. Si possono trarre insegnamenti importanti, è una sorta di scuola di vita per me».

L’uomo dei record

Il successo, quando ha iniziato, non era di certo una parte integrante dei suoi piani. «Non mi sarei mai aspettato di arrivare dove sono ora. Non è evidente essere un alpinista professionista, dal punto di vista commerciale serve anche un po’ di fortuna. Ho investito tanto nel mio percorso, ma penso di essere arrivato anche al momento giusto». La maggior parte del tempo il 40.enne la passa al fianco dei suoi compagni d’avventura in varie spedizioni, ma lui è noto soprattutto per i suoi record di velocità in «free solo» (l’arrampicata in solitaria senza assicurazioni, ndr.). «Un po’ mi infastidisce - ci confessa - tuttavia, credo che faccia parte del gioco, è l’aspetto che colpisce maggiormente. Negli anni, comunque, ho imparato a dare meno peso alle reazioni dell’opinione pubblica».

Segreti del mestiere

Ai più potrà sembrare strano, ma Arnold ha ben chiaro che a fare la differenza nel suo sport è la mente e non il fisico. «Considero la forza, la resistenza o la tecnica come le basi della disciplina. Il 70% di una buona riuscita - confida l’urano - dipende dall’aspetto mentale, è molto complicato mantenere sempre il focus. La memoria, poi, è un fattore importante, normalmente preparo la scalata almeno un paio di volte». Ma quali sono, infine, le sensazioni una volta giunto a migliaia di metri da terra? «Molte persone pensano che in quei momenti abbiamo percezioni del tutto eccezionali. Per quanto mi riguarda non è così. Non provo delle emozioni fuori dall’ordinario, anzi molto pragmaticamente penso solamente alla discesa che mi aspetta». La fase di realizzazione, quindi, subentra solo a posteriori. «Dopo una spedizione mi capita spesso di ammalarmi, mi sento come svuotato da tutte le pressioni che avevo addosso e percepisco il raggiungimento dell’obiettivo. Sento la necessità di recuperare, ma un paio di settimane dopo capisco davvero cos’ho compiuto e mi sento soddisfatto».

La base di tutto

Già, gli obiettivi per Dani sono assolutamente indispensabili. «Sono estremamente affascinato per natura da ciò che sembra inizialmente impossibile. Le sfide catturano la mia attenzione, mi piace non sapere cosa mi aspetta e voler cercare delle soluzioni. Ho bisogno di avere degli obiettivi». Senza delle spinte che lo stimolano, dice lui, è tutta un’altra persona. «Mi considero un tipo pigro, non faccio nulla se non ne vedo il senso. In me convivono due parti ben distinte. Ogni tanto non so dove andare o cosa fare, per certi versi mi sento anche perso. Poi, quando ho ben chiaro in mente quale altro traguardo raggiungere cambia tutto e mi ci dedico pienamente». In ottica futura, una delle sue ambizioni è quella di continuare ad esplorare gli angoli più remoti della Terra. «Voglio scovare dei nuovi luoghi da scalare. Mi reco in posti pressoché sconosciuti o in Paesi in cui non ci sono montagne rinomate. Desidero viaggiare e riscoprire il gusto dell’avventura, perché nel «free solo» è un aspetto che viene un po’ a mancare».

Il rapporto con Ueli Steck

Sul suo legame con l’alpinista bernese Ueli Steck si è detto e scritto tanto. Secondo molti, tra i due, c’era una vera e propria rivalità. «Io non la definirei così a dire il vero, agli inizi della mia carriera mi ispiravo a lui.» Prima della sfortunata morte di Steck - nell’aprile del 2017 - non tutto però era rose e fiori tra i due. «Penso che per lui non sia stato facile accettare il fatto che fosse arrivato qualcun altro a contendergli i primati. Era un grandissimo scalatore e ha contribuito molto a questo sport. Se potessi tornare indietro, però, non credo che cambierei qualcosa nel rapporto che avevamo, eravamo senza dubbio persone estremamente differenti. Lui, per esempio, si teneva sempre in grande forma, mentre io - come ho già detto - ho dei momenti in cui stacco un po’». Le loro storie sono anche state oggetto di un celebre documentario, intitolato «Sfida per la vetta» e presente su Netflix. «Loro hanno bisogno di indirizzare la narrazione in un certo modo, ma credo che ne sia uscita un’immagine un po’ esagerata rispetto alla realtà. Sono alcune difficoltà che si hanno quando ci sono di mezzo i media, il fatto che fossimo entrambi svizzeri, poi, può aver contribuito ad alimentare negli anni questa percezione di rivalità tra noi».