Alpinismo

«Il dramma del K2 mi ha insegnato ad amare la vita»

L’alpinista Marco Confortola racconta le sue lezioni della montagna: «Bisogna imparare quando dire basta, anche a pochi metri dalla vetta»
Mattia Sacchi
28.09.2021 16:13

Rispetto, umiltà, sacrificio, passione : sono solo alcune delle lezioni che la montagna può dare. Insegnamenti che anche un alpinista esperto come Marco Confortola, uno dei più grandi di tutti i tempi, può continuare ad apprendere. Il 50.enne valtellinese, che sta cercando di essere tra i pochi eletti a riuscire nell’impresa di scalare tutti i 14 Ottomila al mondo senza ossigeno (al momento è a quota 11, ndr), è stato il protagonista della conferenza organizzata all’Auditorium della Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona dalla Claro-Pizzo 2500 plus, ormai immancabile appuntamento nell’agenda degli appassionati che avrà luogo domenica prossima (info su claropizzo.ch).

Confortola ha avuto modo di presentare il suo ultimo libro «Le lezioni della montagna. I segreti per raggiungere la vetta nella vita di tutti i giorni», nel quale racconta la storia di un tentativo non riuscito, la scalata dell’ottomila pakistano Gasherbrum I, e di quanto sia importante avere la forza di dire basta, anche a pochi metri dalla vetta, pur di tornare a casa vivi: «Perché la vita è la cosa più preziosa che abbiamo, non esiste nessuna impresa che possa avere il suo stesso valore. So bene che in certi momenti è più facile andare avanti piuttosto che fermarsi e tornare indietro, ma è proprio in quei momenti che dobbiamo rimanere lucidi. Io ero a 7.700 metri e mancava davvero poco per completare il mio dodicesimo Ottomila, ho però avuto la forza di rendermi conto che le cose non stavano andando come volevo e che i pericoli erano troppi, per questo ho preferito rinunciare. Questo messaggio vale in vetta come nella vita di tutti i giorni: penso all’amministratore delegato di un’azienda e alle sue scelte, se non è in grado di capire quando è il momento di non correre rischi può mandare tutto in bancarotta e far perdere il posto di lavoro ai suoi dipendenti».

La capacità sta quindi nel dare valore anche al fallimento e cogliere i suoi insegnamenti, come spiega l’alpinista estremo: «Dobbiamo partire dal presupposto che la sicurezza deve essere uno stile di vita, perché le montagne e gli obiettivi restano, ma la vita è una sola. Non è facile accettare una sconfitta, non mi vergogno a dire che ho pianto per non aver raggiunto il Gasherbrum I, ma è importante capire i propri errori per trovare la forza di prepararsi ancora meglio e ripartire. È questa la chiave del successo».

Certo, la montagna può essere una maestra particolarmente severa, come ha scoperto Confortola sulla sua pelle, in una delle pagine più tragiche dell’alpinismo moderno. Nel 2008, sulla via del ritorno dalla vetta del K2, il crollo di un seracco blocca gli alpinisti coinvolti e li costringe a bivaccare a un’altitudine di 8'400 metri. Muoiono 11 alpinisti, mentre il valtellinese riesce a sopravvivere, non senza conseguenze: a causa del congelamento gli vengono infatti amputate tutte le dita dei piedi. «In quella notte ho pensato solo a vivere, a non addormentarmi perché a quelle quote la sonnolenza è letale. Ore lunghissime, nelle quali ho cercato di tenere alta la convinzione che sarei riuscito a tornare a casa. Dopo l’amputazione i medici che mi avevano spiegato che avrei camminato a fatica per tutta la vita, figuriamoci tornare a scalare. Quando mi hanno consigliato uno psicologo per accettare la mia condizione, mi sono detto che invece mi sarei arrangiato. Sono passato da un 43 di scarpe a un 35, ci ho messo un anno a reimparare a camminare e sono tornato sulle “mie” montagne. Ho avuto voglia di lottare per tornare a vivere come volevo io ed è questo che vorrei capissero i giovani, che devono essere tenaci, soprattutto nella società in cui viviamo oggi».

Una società che troppe volte ci mette in competizione tra di noi, facendoci distogliere l’attenzione sulle cose davvero importanti: «Non dimentico mai che, prima di essere alpinista, sono una guida alpina. Questo vuol dire che accompagno le persone in montagna, in sicurezza e con il rispetto che si deve alla montagna, aiutando chi è in difficoltà, anche nella mia attività di elisoccorso. Scalo non per sfida ma per passione, utilizzando le mie esperienze per trasmettere insegnamenti».

Anche al di là del confine, come in Ticino: «Ho conosciuto tanti amici simpatici in questi giorni, a partire dagli organizzatori della Claro-Pizzo, poi parliamo praticamente lo stesso dialetto... Devo dire che non conosco bene le vostre vette, ma mi sa che è arrivata l’occasione per farlo presto».