«Il mio interesse per lo sport?Zero, mi sembra di perdere tempo»

Qualche vecchio appassionato del nostro calcio si ricorderà certamente di Heinz Blumer, che in Ticino a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 vestì la maglia di Lugano, Chiasso e Mendrisio. Riccardo Blumer, direttore dell’Accademia di architettura di Mendrisio, non è né figlio né parente di quel Blumer, col quale non condivide nemmeno la passione per il calcio. Architetto e designer, Riccardo è cresciuto a Bergamo, figlio di industriali svizzeri del ramo tessile. Nel 1997 ha vinto il «Design Preis Schweiz» e nel ‘98 il «Compasso d’Oro». Nel 2010 le sue sedie «laleggera» e «Entronauta» sono state inserite nella collezione permanente del MoMA di New York.

Parlando della componente ludica, lei ha detto che il gioco è una delle tecniche più complesse inventate dall’uomo. Perché ne è convinto e vale anche per lo sport?
«Non sono sicuro che sport e gioco siano la stessa cosa, perché se giochiamo a «nascondino» o a «bandiera» non stiamo facendo sport. Però, forse, ci sono altre discipline che sono simili al gioco. Un gioco diventa sport quando la competizione richiede una classifica e allora è necessario organizzare tutto un sistema per far emergere l’eccellenza. Nel gioco invece non c’è la ricerca dell’eccellenza. Il gioco è un allenamento, ha una serie di relazioni complesse, pensiamo alle carte o agli scacchi, con tecniche che lavorano sulla casualità che diventa meraviglia e ti permette di dominare il controllo del gioco. Lo sport invece include il sentimento di una messa in prova di capacità, per cui qualcuno alla fine deve essere più bravo di un altro».
Però anche nel gioco alla fine qualcuno vince e qualcuno perde...
«Ma mentre nello sport c’è bisogno assolutamente di un vincitore, nel gioco non è sempre così e vinca l’uno o vinca l’altro non importa. Lo sport l’hanno inventato i greci, è una dimensione eroica di una rapporto col corpo. È l’uomo che diventa dio. È con i greci che il corpo diventa la zona dove dio s’incarna e il vincitore diventa l’eroe perché qualifica una sua capacità di essere divino. Prima dei greci le divinità erano raffigurate come animali, da lì in poi dio diventa uomo, Athena è raffigurata come una donna. Quindi culto del corpo, delle capacità del corpo e dunque culto della guerra, quindi Achille, Agamennone, Ulisse...».
Lei che rapporto ha con lo sport?
«Direi inesistente. Nel senso che non seguo nessuno sport come appassionato, però pratico alcune attività sportive: vado in bicicletta, scio, corricchio, Da giovane praticavo equitazione».
Perché non le interessa, almeno come fenomeno sociale importante del nostro tempo, della nostra civiltà?
«È una domanda che non mi sono mai posto. Non lo so. Mi sembrerebbe di perdere tempo. Forse c’è qualcosa di sbagliato nel mio atteggiamento, ma non ho mai seguito una partita di calcio».
Quando come architetto pensa allo stadio, il teatro in cui va in scena la contesa sportiva, cosa le viene in mente?
«Non mi piace. Lo stadio è un’invenzione romana, è il Colosseo, un momento in cui un grande pubblico assiste ad una competizione che magari sarà anche bellissima, però produce un fenomeno di folla che a me non piace. Soprattutto è un fenomeno incontrollato. Mentre da una parte siamo di fronte ad un gioco molto controllato, dall’altra si assiste ad una perdita completa di controllo degli effetti che quello che succede ha sugli spettatori. È un fenomeno che trasforma le città, il pubblico è troppo poco coinvolto da un punto di vista sportivo, per cui alla fine vince solo l’aspetto emotivo, che noi non siamo capaci di controllare».
Ma un pubblico che esterna emozioni allo stadio, che si sfoga lì, non potrebbe tutto sommato costituire un fenomeno positivo e non negativo?
«Non mi sembra che i risultati siano ottimi in questo senso».
Mi perdoni, non è che ogni evento sportivo si trasformi in un bagno di sangue...
«Le urla che si sentono, la potenza di questi canti, magari innocui, a me fanno un po’ paura, perché sono finalizzati alla produzione di una grande energia emotiva, che non sono certo costituisca una liberazione, ma piuttosto un caricarsi come succede prima di andare in guerra. E questa carica poi si porta a casa. Per me lo sport dovrebbe procurare godimento per l’aspetto tecnico dello spettacolo offerto, senza fuoricontrollo emotivo».
Davvero non ha mai pensato o sperato di poter progettare uno stadio? Forse da un punto di vista professionale la sfida sarebbe molto intrigante. O no?
«Certamente. Se arrivasse una proposta, lo stadio sarebbe un oggetto interessante da un punto di vista architettonico. Esiste, e dunque l’architetto deve rispondere. Lo stadio ha una relazione col luogo in cui si trova, ha un’estetica, può far diventare una parte di una città un deserto o, invece, un luogo attrattivo, anche quando non c’è la partita. Perché la cosa più bella dell’architettura è di essere capace di valorizzare una costruzione anche quando non è in funzione. Il Partenone di Atene non è più in funzione da anni, ma ha una presenza tale che la gente corre a vederlo. Poi c’è il discorso relativo all’organizzazione degli spazi interni: e l’architettura è fortemente questo, organizzare la presenza di corpi intenti ad un’azione».
Davvero non ha mai pensato o sperato di poter progettare uno stadio? Forse da un punto di vista professionale la sfida sarebbe molto intrigante. O no?
«Certamente. Se arrivasse una proposta, lo stadio sarebbe un oggetto interessante da un punto di vista architettonico. Esiste, e dunque l’architetto deve rispondere. Lo stadio ha una relazione col luogo in cui si trova, ha un’estetica, può far diventare una parte di una città un deserto o, invece, un luogo attrattivo, anche quando non c’è la partita. Perché la cosa più bella dell’architettura è di essere capace di valorizzare una costruzione anche quando non è in funzione. Il Partenone di Atene non è più in funzione da anni, ma ha una presenza tale che la gente corre a vederlo. Poi c’è il discorso relativo all’organizzazione degli spazi interni: e l’architettura è fortemente questo, organizzare la presenza di corpi intenti ad un’azione».
Quali limiti deve porsi un architetto quando progetta qualcosa?
«Tanti. Senza limiti sarebbe un disastro e anzi, uno è bravo proprio nella risposta che sa dare ai limiti che gli vengono posti. Ci sono limiti legati alla funzione, alla disponibilità economica, alla sostenibilità, oggi più importante che mai».

Che opinione ha del territorio ticinese, di cui si sente spesso dire che ha vissuto una crescita abbastanza disordinata?
«Ha il grande vantaggio di avere una conformazione orografica molto definita. Sostanzialmente è una valle. In un corridoio, più di tanto sui versanti delle montagne non riesci ad andare, per cui siamo fortunati: quando percorriamo l’autostrada, in certi luoghi abbiamo delle visioni spettacolari, che son dati dalle condizioni territoriali. Quando sbuco dal Ceneri e guardo giù sulla piana del Ticino, il panorama è fantastico, anche se si è costruito male. Rispetto ad altri luoghi, il Ticino ha però ancora la possibilità di correggere, perché le condizioni qui non sono degenerate. Credo che la grande chance di questo cantone sia data dall’unione di tanti piccoli comuni in grandi comuni: il desiderio di capire che il territorio non è più fatto di piccole unità separate, ma di avere un grande progetto complessivo, è una grande possibilità che si è dato il Ticino. Da solo e correndo più di altre regioni svizzere».
Come Accademia di architettura che legame avete col territorio?
«Soprattutto il primo anno lo usiamo tantissimo per far progetti, per visitarlo, per conoscerlo, ma non possiamo agire con progetti specifici: come università non accettiamo mandati».
Perché un costruzione è bella e un’altra non lo é?
«Questo giudizio è sempre temporale, dipende dal momento in cui lo si esprime. Certe architetture che magari non venivano giudicate bene, con gli anni sono diventate architetture da proteggere. Allora può darsi che l’architetto sia capace di essere un precursore, proponendo costruzioni che solo col tempo saranno apprezzate. Ma avviene anche il contrario, con edifici giudicati belli sul momento che nel tempo si rivelano ciofeche».
Mi accorgo che non abbiamo più parlato di sport. C’è un oggetto, un regalo, che risveglia un ricordo di bambino legato alla pratica sportiva?
«La palla è un oggetto comune per tutti i bambini, ma io ho sempre avuto grossi problemi con tutto quello che rotola, dunque sport come calcio, tennis, basket, pallavolo. Ho difficoltà di concentrarmi con una palla in mano, ma sono perfettamente conscio che si tratta di un oggetto strepitoso, dalla biglia alla pallina che rimbalza. E quando vado in Africa e vedo che i bambini giocano a a calcio con una palla di stracci è come dire che non conta più com’è fatto l’oggetto, ma solo la sua capacità di rotolare».