L'intervista

«In bici mi chiamavano Spartaco e ora ho finalmente trovato il mio scudo»

Una vera leggenda svizzera – Ma Fabian Cancellara non riesce proprio a rinunciare allo sport che l’ha resocelebre in tutto il mondo, il ciclismo, e grazie al partenariato con Tudor, brand orologiero ginevrino, si lancia in una nuova, ambiziosa avventura
Giorgia Cimma Sommaruga
11.12.2022 14:02

Una vera leggenda svizzera. Tanti i campionati mondiali e olimpici vinti sulle due ruote. Ma Fabian Cancellara non riesce proprio a rinunciare allo sport che l’ha resocelebre in tutto il mondo, il ciclismo, e grazie al partenariato con Tudor, brand orologiero ginevrino,si lancia in una nuova, ambiziosa avventura. Il Tudor pro cycling team per tornare tra i professionisti con una squadra tutta svizzera. La Domenica lo ha incontrato a Ginevra, dove, per la prima volta dalla nasciata di questo progetto (nell’aprile 2022), tutti gli attori, corridori e staff, si sono incontrati per la prima volta.

Signor Cancellara, qual è il suo ruolo in questa nuova avventura?

«Io sono co-proprietario e presidente della squadra».

Ma con la sua esperienza, non si occuperà anche di fare scouting?

«Penso che ognuno debba avere il suo ruolo all’interno del progetto, tuttavia, se sarà necessario, io mi metto a disposizione per poter dare una mano».

Come nasce la Tudor pro cycling?

«Da una chiacchierata con i vertici Tudor. Penso che la gente buona prima o poi si incontra. E così è stato. Valorai, progetti, idee... io, assieme alla mia società Sette Sports, avevo già rilevato una squadra sull’orlo del fallimento, la Swiss racing academy, con la partecipazione di Tudor, che ci tengo a precisare, non è più solo uno sponsor, ma entra a pieno titolo nel managing del team, abbiamo fatto un salto di qualità. E la Swiss racing academy è diventata, lo scorso aprile, la Tudor pro cycling team».

Un progetto che non nasconde la sua ambizione...

«Abbiamo sceltopresto di annunciare che la squadrà parteciperà al Tour de Suisse, il tempo aiuta a costruire una buona struttura. E a mettere bene fuoco i nostri obiettivi».

Ad esempio?

«Tutto il progetto si basa su tre parole chiave: swiss, human, performance (svizzera, umano, prestazione). Un team finalmente svizzero, che quando si incontra - come in questi giorni a Ginevra - lo fa in Svizzera, e non ha solo la licenza qui. L’individualità di ogni essere umano, unico, è al centro di tutto, per poter stare bene. E infine, ma non meno importante, le prestazioni, per avere successo dobbiamo vincere».

Quindi la base sarà a Ginevra?

«No, vicino a Lucerna. Sarà il nostro quartier generale, dove ci sarà il nostro servizio corse, gli uffici e le biciclette. Noi non vogliamo essere una squadra svizzera che poi si ritrova in un altro paese, noi vogliamo vedere le targhe delle macchine svizzere, vogliamo vedere che i nostri collaboratori vivono e e fanno girare l’economia in Svizzera, questo penso che possa fare la differenza».

L’attenzione al legame con il territorio potrebbe far tornare in auge uno sport come il ciclismo in tutto il Paese?

Ho corso per 17 anni tra i professionisti e ora, nel nuovo ruolo, spiego ai miei ragazzi che bisogna tenere i piedi per terra

«Lo spero bene. E sono molto contento e orgoglioso di questo progetto, ed è grazie a Tudor che siamo riusciti a fare il salto di qualità ulteriore. Penso che far entrare un partner del genere è anche un segnale forte per il nostro ciclismo, perchè, è vero, questo sport mi ha dato tanto, ma ora voglio far anche io la mia parte».

Durante la sua carriera, non ha mai avuto il timore di esprimere la sua ambizione. Spesso abbiamo sentito dichiarare ai media: «Questa gara la voglio vincere». Per i giovani corridori che hanno meno esperienza, può essere motivo di pressione?

«Questa non deve essere una pressione ma il modo per trovare la loro motivazione, è ovvio che uno dei fattori principali della nostra squadra è il fattore umano, che non a caso sta al centro dei nostri valori, tuttavia per avere successo bisogna anche vincere e ottenere dei risultati».

Tipo?

«Beh... se un giorno andremo al Giro di Svizzera e ci sono i genitori con i bambini che indossano la nostra maglia, vuol dire che abbiamo vinto. Perché il ciclismo è uno sport per la gente, e vorremmo farlo ritornare popolare nel nostro paese: è bello vedere in giro i ragazzi che indossano le maglie dei calciatori famosi, ma sarebbe bello vederli anche con la nostra».

Le corse si vincono e si perdono, l'appoggio della famiglia aiuta l'atleta ad essere performante e a vincere

Che rapporto ha con i giovani corridori?

«Cerco di fare il loro bene. Io so cosa vuol dire vincere le corse, ma anche perderle. Conosco questo mondo e le sue difficoltà... Ho fatto 17 anni nel professionismo, sono tanti, e ho vissuto tante esperienze differenti, e in tante squadre diverse, ma alla fine se togliamo tutto, sono umano come gli altri. Per me il rapporto è orizzontale con tutti, non sono superiore a nessuno. Però se posso dare dei consigli, o se i ragazzi mi fanno delle domande, io posso raccontare del mio passato, e se è un modo per trasmettere la mia passione ne sono contento e orgoglioso».

Allora vorrebbe insegnare loro qualcosa...

«Forse la cosa più importante che dico sempre ai miei ragazzi è che bisogna avere i piedi per terra, perché facile sentirsi i migliori quando si vince, ma poi dopo un attimo si può anche perdere le gare».

E allora, nella vita di uno sportivo professionista, pensa che sia importante avere una vita privata equilibrata?

«Fondamentale. Dico sempre che quando uno sportivo professionista vince è anche merito delle mogli, delle famiglie. Chi non ha una vita privata stabile è dificile possa fare buone prestazioni».

Lei ci crede nel destino?

«Quando correvo ero soprannominato Spartacus, e guarda caso, il simbolo di Tudor è uno scudo… forse nulla avviene per caso».