Giochi olimpici

Kamila Valieva e la tempesta perfetta

La pattinatrice 15.enne, al centro di un presunto caso di doping, è stata riabilitata dal TAS e oggi andrà a caccia dell’oro nel concorso individuale - L’ombra di Sochi 2014 e delle manipolazioni in casa russa indigna gli Stati Uniti e imbarazza il CIO - Fabien Ohl: «Ma la giustizia non si fa sui sospetti»
Kamila Valieva, 15 anni, è stata la prima donna nella storia a effettuare un salto quadruplo. © AP/Bernat Armangue
Massimo Solari
15.02.2022 06:00

La Russia, alla fine, ha fatto irruzione ai Giochi di Pechino. Poco importa se orfana di bandiera sul campo. Il caso di Kamila Valieva ha spianato la strada al Cremlino, dopo che Vladimir Putin – fedele compagno di Xi Jinping – aveva in qualche modo mostrato la via durante la cerimonia d’apertura. Eccola la tempesta perfetta delle XXIV Olimpiadi invernali. Quella tanto temuta dal CIO. No, non manca nulla. L’ombra delle sostanze proibite, per di più in zona medaglie. Un pasticciaccio procedurale. Occidente contro Est. E al centro una figura controversa: una pattinatrice di soli 15 anni – 160 centimetri per 47 chili –, capace di eseguire piroette sconosciute ai colleghi maschi e cresciuta in un ambiente noto per i suoi metodi discutibili. Per taluni, persino disumani. Sullo sfondo, a complicare il tutto, o meglio a foraggiare la schiera dei colpevolisti, il «doping di Stato», che a Sochi 2014 travolse – a suon di prove e squalifiche tutt’ora vigenti – gli atleti russi e Mosca.

Il Cremlino esulta

Il paradosso? In posizione di forza, ora e sottolineiamo ora, c’è proprio Mosca. Decisa a impossessarsi della riabilitazione provvisoria di Valieva e a farne una battaglia diplomatica. «Come tutti – ha dichiarato non a caso il portavoce del Governo, Dmitry Peskov – siamo contenti che Kamila sarà in grado di continuare la sua partecipazione alla competizione singola. L’intero Paese le augura la vittoria, e il Cremlino augura la vittoria a ogni atleta russo, perché questo è il sogno di ognuno di loro, e ogni atleta lavora per realizzare questo sogno». Brevissimo riassunto: oggi la 15.enne sarà al via nel concorso individuale (da favorita), nonostante un controllo dell’agenzia antidoping russa (Rusada) effettuato il 25 dicembre avesse riscontrato nelle sue urine tracce di trimetazidina. Un farmaco contro l’angina, noto da almeno otto anni e capace di aumentare il flusso sanguigno al cuore. Di qui la sua proibizione e la celebrità di alcune squalifiche già ordinate nel recente passato.

Ma perché, allora, non si è usato il pugno duro anche in questo caso? In realtà la Corte si è vista costretta a respingere gli appelli dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada) e dell’Unione internazionale di pattinaggio, senza entrare nel merito della vicenda. Senza, cioè, determinare le conseguenze pratiche del ricorso a una sostanza dopante da parte di Valieva. Il TAS, al contrario, si è limitato a constatare che «impedendo all’atleta di competere ai Giochi olimpici, le avrebbe causato un danno irreparabile». Di più. «Non è colpa della diretta interessata se la notifica della positività a un test anti-doping sia pervenuta a Giochi in corso» ha spiegato il direttore generale del Tribunale Matthieu Reeb. Il tutto facendo riferimento alle sei settimane impiegate dal laboratorio di Stoccolma per analizzare i campioni prelevati dalla Rusada, autorizzata a procedere con controlli nazionali ma sospesa sul piano giudicante dopo le malefatte del 2014. Sei settimane, esatto, e non meno di 20 giorni come normalmente previsto dalla Wada in prossimità dei grandi eventi. Qualcuno, va da sé, ha sbagliato o potrebbe essere in malafede. Sta di fatto che nel frattempo Kamila Valieva aveva messo le mani sull’oro olimpico nel team event del pattinaggio di figura, eseguendo per la prima volta nella storia un salto quadruplo. Medaglia, questa, che rimane sub iudice, così come accadrà in caso di un nuovo podio a livello individuale.

Nessuna medaglia in caso di vittoria

Il CIO, al proposito, non l’ha presa benissimo. Indicando di dover «seguire lo stato di diritto» e «quindi consentire» a Valieva «di competere». Detto ciò, «nell’interesse dell’equità verso tutti gli atleti, non sarebbe appropriato tenere la premiazione per l’evento a squadre di pattinaggio artistico durante i Giochi di Pechino 2022. Se la Valieva dovesse finire dunque tra le prime tre concorrenti nella competizione di pattinaggio individuale, nessuna cerimonia di fiori e nessuna cerimonia di premiazione avrà luogo». Ahia. La tempesta perfetta, appunto. E a intricare ulteriormente la vicenda, v’è l’età dell’atleta. Due dei quattro motivi su cui si basa la decisione del TAS hanno infatti evidenziato il suo status di «persona protetta» come minorenne ai sensi del Codice mondiale antidoping e la mancanza di regole chiare per la sospensione di un minore, mentre sono previste disposizioni specifiche per diversi standard di prova e per sanzioni più basse nel caso di persone protette. A rischiare, quanto se non più del giovane prodigio russo, è dunque il suo staff. Con in particolare l’allenatrice Eteri Tutberidze e i suoi regimi massacranti sul banco degli imputati. A lei, ad esempio, si devono la nascita e il subitaneo tramonto di baby campionesse, come gli ori olimpici del 2014 e 2018 Yulia Lipnitskaïa e Alina Zagitova. Per le indagini approfondite, le tesi dell’accusa e della difesa, e infine le sentenze, ad ogni modo, bisognerà attendere. Con tutto quanto ne consegue per la credibilità delle gare in corso e dell’immagine del CIO. Per dire: anche gli Stati Uniti hanno alzato la voce nelle scorse ore. «Questo sembra essere un altro capitolo del disprezzo sistematico e pervasivo da parte della Russia verso lo sport pulito. Il Comitato statunitense è deluso dal messaggio che manda questa decisione» la dura posizione espressa dal CEO Sarah Hirshland a margine della sospensione di Valieva congelata dal TAS. Dettaglio non trascurabile: gli USA si sono classificati al secondo posto, dietro a Kamila e compagni, nella citata prova a squadre.

«Sport? No, geopolitica»

Tutti le parti in causa sembrano uscirne con le ossa rotta. «Anche se una premessa è doverosa» osserva Fabien Ohl, sociologo dell’Università di Losanna e autore di diversi studi su doping e sport internazionale. «Questa storia avrebbe fatto molto meno rumore se avesse invischiato un atleta di un’altra nazionalità. Visto quanto successo nel 2014, invece, è evidente che i sospetti aumentano. Oserei dire che è pure normale. Allo stesso tempo, però, bisogna affermare con decisione che la giustizia non si basa sui sospetti. Servono delle prove, un’istruttoria e determinate tempistiche. Insomma, urge anche una certa prudenza. Rispolverare Sochi, alla luce di un presunto caso, beh, mi sembra correre un po’ troppo». Ohl insiste: «La giustizia sportiva non può essere differente dalle altre. In assenza di dati oggettivi, all’atleta – così come al normale imputato – va concesso il beneficio del dubbio. Ecco perché la decisione del TAS non mi sorprende. Impedire a un partecipante di battersi per una medaglia, per la sua missione principale, prima di aver condotto un’inchiesta dettagliata, avrebbe costituito una pena pesantissima. Ribadisco: è una questione di giustizia e proporzionalità. Che, oltretutto, non cancella – e ci mancherebbe – la possibilità di togliere le medaglie conquistate in un secondo momento».

Gli interrogativi, intanto, si moltiplicano. Ohl ne cita un paio: «E se i campioni di Valieva fossero stati contaminati? È un’ipotesi, badate bene, che tuttavia a oggi non possiamo scartare. Così come non sappiamo se, in presenza di un minore, siano subentrate delle valutazioni di tipo medico». Sulla vicenda, questo è certo, si rischia di perdere completamente il senso della misura. «Strumentalizzare il caso, drammatizzarlo anche su un fronte o sull’altro, è inevitabile» afferma Ohl. Per poi concludere: «Oramai non parliamo più di sport, ma di geopolitica. Non dimentichiamoci che sullo sfondo vi sono le forti tensioni tra USA e Russia per la crisi ucraina».

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