La breve vita di Hemingway tra pugni, tori e molto sport

Il ricordo del Premio Nobel per la letteratura a sessant’anni dalla scomparsa - Il narratore americano si occupava spesso di temi tratti dalla realtà
Ernest Hemingway vinse il Nobel per la letteratura nel 1954. © Shutterstock.com
Stefano Marelli
02.07.2021 06:00

Sessant’anni fa, il 2 luglio 1961, Ernest Hemingway imbracciò il fucile e si tolse la vita. Il premio Nobel americano mise fine ad un’esistenza breve ma intensissima. Con troppi incidenti, troppe bottiglie e un grande amore per lo sport.

«Il nostro ometto capisce quando abboccano e li trascina a riva da solo». Lo scriveva sul proprio diario Grace Hall Hemingway riferendosi al figlio Ernest, che aveva trascorso il suo terzo compleanno catturando trote in compagnia del padre sul Lake Walloon, nel Michigan Settentrionale, dove la famigliola si trasferiva ogni anno dall’Illinois per i mesi estivi. Fu dunque nella wilderness dei Grandi Laghi, durante interminabili giornate scandite da nuoto, vogate e pesca - a cui presto si aggiunse pure la caccia - che il futuro romanziere ricevette il suo imprinting per passioni sportive che l’avrebbero accompagnato tutta la vita e che, spesso, finirono per fare da sfondo alla sua produzione letteraria.

Racconti di vita vera

Al contrario di quanto accade ancora oggi in Europa - dove gli intellettuali da sempre hanno un atteggiamento altezzoso nei confronti dello sport - negli USA i romanzieri non si sono mai vergognati di occuparsi di motori, scommesse e corse di cavalli. Di vita vera, insomma, di tematiche vicine alla gente e narrate con la lingua del popolo. Esemplare il caso di Ring Lardner - il maggior cantore del baseball che sia mai esistito - al quale il giovane Hemingway, dalle colonne del giornale della sua high school, palesemente si ispirava. Fra i primissimi pezzi che Ernest scrisse per il foglio scolastico, infatti, ci fu un racconto a sfondo pugilistico - una combine finita male - che scimmiottava stile e lingua del suo idolo.

Rifugio nella boxe

Ossessionato dalla competizione, ma allergico agli sport di squadra - dove non eccelleva - proprio nella boxe l’Hemingway sedicenne trovava rifugio e riscatto. Ai compagni che lo sfottevano per la goffaggine che mostrava nel football, Ernest chiedeva di infilare i guantoni per vedersela da uomo a uomo sul ring improvvisato nella sala dove sua madre teneva lezioni di canto e pianoforte. Nessuno poteva tirarsi indietro (chi mai avrebbe accettato di passare per codardo?) e così il futuro Premio Pulitzer, che era grande e grosso, si prendeva le sue belle rivincite. Un espediente che avrebbe adottato più volte anche da adulto: a chiunque mettesse in discussione la sua bravura alla macchina da scrivere lui proponeva di risolvere la questione con un paio di round da tre minuti.

Le sfide coi guantoni

Celebri rimasero le sfide che combatté col romanziere canadese Morley Callaghan, reo di avere osato avanzare dubbi sulla sua virilità. «Tornarono nuovamente ai loro angoli. Tolsi a Jack l’accappatoio: si appoggiò alle corde, piegò le ginocchia due o tre volte e fregò le scarpette sulla resina. Suonò il gong e Jack si volse rapidamente e avanzò verso il centro del ring», scrisse Ernest nel racconto «Cinquanta bigliettoni», con la sua inimitabile capacità di farti sentire parte dell’azione.

L’arruolamento

Terminato il liceo, Hemingway decise non iscriversi all’università, ma di arruolarsi e partire per l’Europa da un paio d’anni dilaniata dalla Prima guerra mondiale. Ferito e decorato sul fronte italiano, dove guidava ambulanze, dal Veneto fu trasferito a Milano per farsi operare alle gambe devastate da uno shrapnel austriaco. Durante i mesi della convalescenza, a San Siro scoprì le corse ippiche e frequentò fantini, allenatori e allibratori. Come per ogni cosa di cui si innamorava, osservò tutti i dettagli, prese appunti e fece tesoro di quell’esperienza.

Proprio nel mondo dei cavalli, infatti, a tempo debito saranno ambientati alcuni fra i suoi migliori racconti. «Così era, tener giù il peso. Alla maggior parte dei fantini basta montare per tener giù il peso. Un fantino di solito perde un chilo ogni volta che monta, ma mio padre era tutto asciutto e non poteva tener giù i suoi chili senza fare tutte quelle corse». (Da «Il mio vecchio»).

Il Midwest andava stretto

Alla firma dell’armistizio, Hemingway tornò a casa, pensando che fosse arrivato il momento di seguire una formazione accademica. I mesi passati in Europa, però, avevano aperto parecchio i suoi orizzonti, e presto si accorse che il Midwest gli andava stretto. Un paio d’anni di collaborazioni con testate di Kansas City, Chicago e Toronto - per cui scrisse fra l’altro di Tunney, Carpentier, Firpo e Dempsey, cioè la crème del pugilato dell’epoca - gli permisero di racimolare il denaro necessario a trasferirsi a Parigi in compagnia della prima moglie.

Gli anni parigini

La Ville Lumière, a quei tempi, era una colonia di statunitensi attratti dai prezzi bassissimi - si viveva con l’equivalente di un dollaro al giorno - e soprattutto dall’alcol, che nella madrepatria il Proibizionismo aveva invece reso illegale. Negli anni parigini, mentre provava a diventare uno scrittore e si manteneva inviando corrispondenze dal Vecchio continente per il Toronto Star, Ernest conobbe altri sport. Innanzitutto lo sci, che imparò durante i lunghi soggiorni invernali in Austria e Svizzera e che, naturalmente, trovò spazio in un paio di sue short stories. «Sul Silvretta era andato benissimo, ma era primavera e la neve era buona solamente nelle prime ore e del mattino e la sera. Nelle altre ore del giorno era sciolta dal sole». («Idillio alpino»). Amore a prima vista fu pure il ciclismo su pista, che Hemingway scoprì quasi per caso. Vide la sua prima Sei giorni al Velodrôme d’Hiver solo perché ce lo aveva trascinato un amico: lo champagne venduto nel parterre, gli aveva assicurato, è maledettamente bon marché. Di bici, ad ogni modo, non riuscì mai a scrivere seriamente, sostenendo che solo la lingua francese avrebbe potuto descrivere in maniera adeguata una disciplina così tecnica.

Tante pagine sui matador

Centinaia di pagine invece Ernest le riempì parlando di tori e toreri, universo con cui venne in contatto nel 1923 e che lo appassionò al punto da diventare, dopo qualche anno di studi approfonditi, uno dei più grandi esperti in materia. La corrida - secondo Hemingway - era quanto di meglio potesse esistere in tema di coraggio e morte, fil rouge dell’intera sua produzione letteraria.

Al mondo dei matador consacrò innumerevoli racconti, il suo primo romanzo di successo («Fiesta», che fece conoscere ovunque Pamplona e la sua Feria de San Fermìn), il più esaustivo trattato di tauromachia che fosse mai stato pubblicato («Morte nel pomeriggio») e infine la cronaca della rivalità nelle arene («Un’estate pericolosa») fra Antonio Ordoñez e suo cognato Luis Miguel Dominguin, padre di Miguel Bosé e marito di Lucia.

La pesca d’altura a Key West

Sempre a Parigi, Ernest conobbe la ricchissima Pauline Pfeiffer, che divenne la sua seconda moglie e che gli permetterà di comprare casa e barca per la pesca d’altura a Key West. Anche la cattura dei giganteschi marlin della Corrente del Golfo, arte in cui Hemingway presto si specializzò, ispirò diversi suoi racconti, ma soprattutto il suo ultimo autentico capolavoro - Il vecchio e il mare - romanzo breve che indusse gli accademici svedesi a conferirgli il Premio Nobel e che, accanto al tema forte dell’eterna lotta fra uomo e natura, faceva spesso riferimento al baseball. «Mi piacerebbe portare a pesca il grande DiMaggio, disse il vecchio. Dicono che suo padre era un pescatore. Forse lui era povero come noi e capirebbe».

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Savane africane

Finanziato dall’inesauribile patrimonio della famiglia di Pauline fu pure il primo dei safari di caccia grossa di Ernest nelle savane africane, un’altra miniera a cielo aperto da cui lo scrittore di Oak Park poté trarre materiale per molti anni a venire. «Macomber, con un gran freddo allo stomaco, e le mani che gli tremavano sullo Springfield ancora puntato, vide che non era più solo. La moglie e Wilson gli stavano accanto, e i due portatori di fucile gli stavano accanto anch’essi» («Breve la vita felice di Francis Macomber»).

Di certo non tremò la mano di Hemingway la mattina del 2 luglio di sessant’anni fa, quando appoggiò le canne del suo Scott dove il naso incontra le sopracciglia e fece scattare entrambi i grilletti, mettendo fine a un’esistenza - piuttosto breve ma intensa all’inverosimile - ormai fitta di troppi incidenti, troppe guerre, troppe bottiglie, troppi animali uccisi, troppe mogli, troppi elettrochoc e troppi fantasmi.