Antti Törmänen: «La malattia è una ferita aperta, ma l'hockey mi ha dato la resilienza»

Da allenatore ha vinto un titolo con il Berna e ha portato il Bienne in finale. Oggi la nuova sfida sportiva di Antti Törmänen si chiama Lugano, ma la battaglia più importante del finlandese – negli ultimi cinque anni – è stata quella contro il cancro: «Adesso ne parlo raramente con i media, perché è una ferita aperta che fatica a rimarginarsi. Anche se sto meglio. Ma sono felice se posso dare un po’ di forza a chi vive una situazione simile alla mia».
Si potrebbe rimanere a discutere per ore con Antti Törmänen. Per i suoi successi, la sua esperienza, la competenza in materia hockeistica. Sì, ma non solo. Da più di quattro anni il finlandese sta combattendo la sua battaglia più importante, quella contro un tumore. Senza nascondersi, in maniera seria ma con il sorriso sulle labbra e senza mai piangersi addosso, il nuovo senior advisor dell’HCL si racconta. La malattia, la sua idea dell’hockey, la nuova avventura in bianconero. È una lunga chiacchierata.
Antti e la malattia
«La mia situazione di salute – spiega il 54.enne – è sempre in evoluzione: quando devi combattere contro un cancro, non sai mai se e quando è davvero finita. Due settimane fa ho però ricevuto delle buone notizie dopo la radioterapia e la chemioterapia alle quali mi sono sottoposto la scorsa estate. Devo però sempre stare attento, non forzare troppo il mio corpo e mantenere uno stile di vita sano. Con questa malattia bisogna rimanere prudenti, anche quando gli esami forniscono segnali e dati incoraggianti».
Da quell’estate del 2020 Törmänen è costretto a rispondere alle stesse domande. Sì, anche alle nostre. Come stai? Sei ancora in terapia? «A volte – dice sorridendo – preferirei non parlare più della mia salute: ci sono periodi in cui è dura discuterne, rispondere a chi mi chiede come va. Semplicemente perché mi riporta con la mente a ciò che ho attraversato e a ciò che ancora devo affrontare. D’altra parte, mi dico che se posso fornire un piccolo aiuto a qualcuno che sta vivendo una situazione simile alla mia e dare un po’ di speranza o di forza, mi fa piacere farlo. Diciamo che non ne parlo più così spesso, ecco. È qualcosa che apre una ferita che già fatica a rimarginarsi».
Anche nei momenti più difficili, Törmänen ha sempre cercato di vedere il lato positivo delle cose. La chiamano resilienza: «Prima di diventare allenatore sono stato un giocatore. Terminata la mia carriera, pensavo di entrare nel mondo degli affari – ho lavorato per un anno nel settore marketing dei media, in Finlandia – ma poi il destino ha deciso diversamente. Volevo dimostrare che anche un hockeista professionista può avere successo nella vita e non necessariamente nel campo dello sport. Mi è piaciuto subito però guidare un gruppo di persone, in questo caso una squadra di disco su ghiaccio. Credo che la mia resilienza provenga da qui, dal fatto di dover essere un leader e un esempio per ragazzi che sono prima di tutto delle persone, ognuna diversa e ognuna con il proprio carattere».
Una ricaduta, nel 2023, non gli aveva impedito di continuare a guidare il Bienne nella finale dei playoff: «Lo sport mi ha aiutato molto ad affrontare nel miglior modo possibile la mia malattia. Spostare la concentrazione su qualcosa d’altro permette di cambiare le idee e di pensare ad altro, a qualcosa di più bello. Sì, aiuta. Mi piaceva andare in pista, essere circondato da persone positive, con le quali mi trovavo bene. D’altra parte, le terapie mi hanno permesso di relativizzare la mia quotidianità, il mio lavoro. Ho vissuto quella finale alla guida del Bienne senza troppo stress e con poche preoccupazioni, se devo essere sincero».


La filosofia di Antti
Ha una sua precisa idea dell’hockey, il finnico: «Da allenatore, la cosa più importante ai miei occhi è sempre stata la crescita dei giocatori. È la base della mia filosofia. Se i giocatori migliorano, aumentano anche le possibilità di giocare meglio. Quando i singoli avvertono la loro crescita, in un’atmosfera positiva, diventano anche più allenabili, se posso dire così. Si aprono maggiormente alle idee del coach, in altre parole. È uno scambio: non ho paura di ascoltare ciò che pensano, le loro impressioni. In uno spogliatoio convivono 25 caratteri diversi, nessuno è uguale all’altro. Le differenze a livello fisico tra le varie squadre oggi sono molto piccole. La differenza la fa il comportamento dei giocatori in pista, le decisioni che prendono in determinati momenti delle partite. Cerco sempre di portare i miei giocatori a rendersi loro stesso conto di quali siano i margini di miglioramento a livello individuale. Quando la lampadina si accende, normalmente rimane accesa a lungo».
Il potere e l’importanza della mente, insomma: «Per un allenatore è fondamentale conoscere il meglio possibile ogni singolo giocatore. Ognuno di loro ha bisogni diversi, impara e migliora in maniera diversa e in tempi diversi. È normale, è come una classe a scuola. Sta al coach avere l’intelligenza di sapersi mettere nella giusta relazione, un po’ come nell’educazione dei propri figli. E non importa che uno sia canadese, finlandese o svizzero. In Svizzera la cultura del lavoro è comunque ottima. Anzi, a volte è fin troppo esagerata: spesso ‘‘meno è di più’’, bisogna puntare alle cose essenziali per aver successo nello sport e nella vita».
Già, il successo. Forse vincere il titolo con il Berna è stato più semplice di portare il Bienne in finale: «Non ho mai pensato alle cose in questo modo. Il processo è stato diverso, nelle due realtà. Forse il livello da cui siamo partiti era più alto a Berna. A Bienne siamo riusciti a compiere dei grandi passi avanti, a rendere progressivamente il club e la squadra più attrattivi sul mercato, per i giocatori. E questo ci ha permesso di diventare ancora più competitivi. Questo aspetto mi ha reso davvero felice».
Antti e il Lugano
Felice come dopo il primo contatto con Hnat Domenichelli. Una telefonata che ha sorpreso Törmänen fino a un certo punto: «No, non ho pensato che Hnat fosse impazzito (ride, NdR). Ho visto qualche partita del Lugano e il sabato sera, dopo la sfida con il Friburgo, ho guardato le ‘‘highlights’’ in televisione. Ho sentito l’intervista e le dichiarazioni di Domenichelli e mi sono detto che questa squadra aveva sicuramente bisogno di un po’ d’aiuto. Il giorno seguente Hnat mi ha contattato e ho trovato questo timing piuttosto divertente. Visto che avevo appena ricevuto buone notizie sul mio stato di salute, ho accettato l’incarico. Ovviamente – come ho già avuto modo di dire – devo rispettare le mie condizioni di salute, ma mi sento bene. E mi ha fatto un gran piacere che il club bianconero pensasse a me, in questo momento».
In una decina di giorni – e scendendo regolarmente sul ghiaccio per gli allenamenti – Törmänen si è già fatto un’idea dei problemi che affliggono i bianconeri: «C’è un buon potenziale, ne sono certo. Quando guardo alle statistiche, alle partite giocate e agli avversari, mi dico che non è tutto da buttare e che ci sono anche tanti aspetti positivi. Anche se ovviamente in questo momento la classifica non lo dice. Con qualche aggiustamento, il Lugano può tornare ad avere successo. Questo non significa che non puoi perdere una partita, magari per un rimbalzo sfortunato, ma il gruppo crescerà quando inizierà a vedere le cose in maniera più rosea, lasciandosi alle spalle la negatività. Per me è interessante conoscere ogni singolo giocatore, persone di cui mi ero fatto magari un’idea non giusta in televisione o da avversario».
Törmänen e Luca Gianinazzi dovranno trovare il modo di rendere redditizia la loro collaborazione: «Il mio ruolo è quello di aiutare e di supportare lo staff tecnico. Gianinazzi è l’head coach, rimane la persona numero uno e di riferimento nello spogliatoio. Abbiamo e avremo degli scambi di vedute e di impressioni: potremmo fare così, oppure cosà, o su un determinato aspetto andiamo avanti in questo modo perché funziona. Spero di poter dare una mano anche ai giocatori, possono discutere individualmente con me se lo ritengono opportuno. Non cambierà tutto in un secondo, ma l’obiettivo è che i giocatori tornino a credere in loro stessi e in quello che fanno. Così aumenteremo le nostre chance di avere successo: quando succederà, potremo sfruttare l’energia positiva che solo le vittorie possono portare. È una grande sfida anche per me, ma in un certo senso l’ho già vissuta due volte: a Berna, quando avevo preso il posto di Larry Huras, e a Bienne dopo l’esonero di Mike McNamara nel 2017».
Chissà, potrebbero anche nascere degli screzi tra il Giana e il finlandese. È fisiologico, quando si lavora: «Sono una persona aperta e anche Gianinazzi lo è. Siamo all’ascolto uno dell’altro. Ci sono tanti modi di guidare un gruppo: può capitare di non essere d’accordo su una determinata situazione, ma va bene anche così. L’importante è essere convinti di ciò che si fa, per il bene della squadra. Forse con qualche aggiustamento diverso da parte dei suoi coach, Roger Federer avrebbe vinto 40 Grandi Slam, non “solo” 20 (ride, NdR). Nessuno può essere sicuro che le sue idee siano quelle giuste, per avere successo, ma se tutti le seguono con convinzione tutto diventa più semplice».