Bernard Côté: «Pensavo di rimanere a Lugano sei mesi»

L’appuntamento è fissato al ristorante 1941 della Cornèr Arena. Bernard Côté arriva puntuale, «perché tanto sono in pensione e ho tutto il tempo che vuoi». È rimasto nel cuore dei tifosi del Lugano, Bernie, salutato con affetto da tutti gli avventori del locale. Un paio di battute, un buon caffè e la chiacchierata può cominciare.
Cosa significa per Côté entrare a far parte della Hall of Fame del Lugano?
«È stata una sorpresa e al tempo stesso un grande onore. È un’emozione incredibile pensare di essere tra le prime tre «leggende» del club bianconero. Sono fiero e orgoglioso di essere stato nominato. D’altra parte devo ringraziare tutti i miei compagni di squadra con i quali ho condiviso i dieci anni con la maglia del Lugano: non bisogna mai dimenticare che l’hockey è uno sport di squadra. Perché sono ancora così amato? Mah, forse perché sono rimasto a vivere in Ticino: la gente mi incontra ancora nei corridoi della pista. E anche quando per ragioni professionali ero stato trasferito alle Isole Cayman, non perdevo l’occasione – quando potevo – di tornare in Ticino, soprattutto per i playoff».
Come mai Côté, terminata la carriera, decise di rimanere a Lugano?
«Prima di tutto perché avevo un bel lavoro. Un «dream job», si dice in inglese, che mi piaceva parecchio. Ho messo su famiglia, i miei figli sono andati a scuola qui. Anche a mia moglie il Ticino è sempre piaciuto: insomma, restare a Lugano è stata una cosa naturale».
La storia racconta che prima di arrivare a Lugano Bernard Côté giocò in Belgio e in Sudafrica. Strano no, per un canadese?
« Si è trattato di occasioni particolari. Minnesota voleva mandarmi nel suo farm-team: un giorno tornai a Montréal a trovare la mia famiglia e appena entrai in casa mia madre mi disse che c’era una telefonata per me. Un amico mi diceva che sarebbe andato a giocare in Belgio e mi chiese se la cosa interessasse pure a me. E così all’improvviso mi sono ritrovato in Europa».
E il Sudafrica?
«È stata un’altra opportunità particolare. Dovevo tornare in Canada per terminare gli studi, ma un altro amico, Jerry Aucoin, mi disse che aveva ricevuto per telegramma dei biglietti per il Sudafrica e che c’era la possibilità di andare a giocare lì durante l’inverno. Lo dissi ai miei genitori, ma visto che era un 1. aprile pensarono ad uno scherzo. Dissi loro che era tutto vero, ma non mi credettero: andarono all’aeroporto ad aspettarmi, ma io ero in viaggio per l’Africa. E alla fine ci sono rimasto tre anni».
In seguito arrivò il Lugano...
«All’epoca il campionato svizzero aveva aperto ai due stranieri. Jörg Zimmermann mi disse che avrebbe potuto farmi avere un contratto con il club bianconero. E l’offerta del Lugano arrivò davvero. Pensavo di trascorrere sei mesi in Ticino e di fare poi il giro dell’Europa. Ed invece dopo la promozione il club mi offrì un contratto di tre anni. Andai a Montréal a presentare la mia fidanzata alla famiglia, mi sposai in Sudafrica e poi tornai in Ticino per l’inizio della stagione 1970-1971. E in parallelo cominciai subito un’attività lavorativa che mi piaceva molto. Ero felice».
Cosa significava essere uno degli stranieri di una squadra svizzera in quegli anni?
«Già all’epoca non c’erano scuse, uno straniero doveva rendere sul ghiaccio. Doveva essere un po’ più bravo degli svizzeri forti. E fungere da esempio sia in pista sia nello spogliatoio. Si trattava di un impegno costante non indifferente, perché durante il giorno si lavorava. I tifosi ci osservavano con attenzione, si attendevano molto da noi, e anche i giocatori delle altre squadre ci riservavano un trattamento speciale. Ricordo che durante una partita un avversario svizzero mi aveva rotto le scatole per tutta la sfida. Eravamo 1-1 e a dieci minuti dal termine iniziò a provocarmi: «Non sei nemmeno stato capace di segnare», mi disse. Mi arrabbiai così tanto che gli feci un check, presi il disco e andai in gol. E poco dopo ne feci anche un altro (ride, NdR)».
Com’era l’hockey di allora?
«Era più istintivo, anche se la tattica già contava. Quando noi canadesi prendevamo il disco, eravamo abbastanza liberi di fare ciò che volevamo. A quei tempi c’era ancora la linea rossa e il fuorigioco di due linee: non era facile entrare in piena velocità nel terzo di difesa dell’altra squadra. Quando tiravo io cercavo sempre gli angoli: magari a inizio stagione non li trovavo, ma poi aggiustavo la mira. Bisogna dire che avevo il vantaggio di allenarmi con un portiere come Alfio Molina: lui i miei tiri spesso li bloccava, ma gli altri portieri no. Ho sempre detto ai giovani: quando tirate guardate i buchi dove il disco può entrare, non il portiere!».
I tifosi non più giovanissimi si ricordano ancora la linea formata da Gaggini, Côté e Koleff...
«Con Jim, che prima non conoscevo, siamo andati subito d’accordo e siamo diventati grandi amici, anche se io sono un canadese francofono mentre lui era anglofono. Ma tra di noi non ci badavamo. Ricordo che una volta Jimmy in pista iniziò a litigare con un canadese di lingua francese di un’altra squadra e mentre lo insultava si girava verso di me e mi diceva: «Scusa Bernie!». Quanto ho riso quella volta. Koleff era un duro, non esitava a riprendere qualche compagno di squadra, ma sempre con rispetto ed educazione. Con lui e Fabio sul ghiaccio ci siamo divertiti, ci completavamo».
A Côté piace l’hockey di oggi?
«Sì e no. Trovo che in generale non si curi abbastanza il possesso del disco. E i cambi sono molto corti: una volta ho visto un’ala che in tre cambi di fila non ha toccato una sola volta il puck. Quando giocavo si restava in pista almeno un minuto. A volte trovo che il talento naturale non venga sfruttato a sufficienza. Il campionato svizzero però mi piace, c’è tanto equilibrio. E sono sempre un grandissimo tifoso del mio Lugano».