Hockey

Carrick, il tacchino e lo spirito di gruppo

Dopo aver cucinato per la squadra, il difensore del Lugano lancia la sfida ai leventinesi
Connor Carrick, terzino bianconero. ©CdT/Gabriele Putzu
Flavio Viglezio
28.11.2025 06:00

Einar Emanuelsson non parla. O meglio, non può ancora parlare. Lo farà dopo il derby. Lo svedese ci sarà, ieri ha svolto il suo primo allenamento in una linea completata da Thürkauf e Sekac. A prendere la parola ci pensa allora Connor Carrick, per un istante nelle insolite vesti di cuoco. Per celebrare il giorno del ringraziamento, negli scorsi giorni il difensore americano ha invitato la squadra a cena a casa sua. Dove non poteva mancare il tradizionale tacchino: «Sì – conferma Carrick – ma non ho potuto invitare tutta la squadra, il nostro appartamento è troppo piccolo: la prossima volta inviterò anche voi (ride di gusto, Ndr). È stato bello e divertente: ho cucinato un tacchino di 8 chili secondo la ricetta di uno chef americano, Kenji Lopez. Per noi statunitensi il “Thanksgiving” è molto importante, ci piace festeggiarlo in famiglia. So che in passato Mark Arcobello organizzava qualcosa di simile qui. Il problema? Il tacchino era troppo grande, ho faticato a infilarlo tutto nel forno, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. E soprattutto nessuno si è sentito male (ride, ndr). Abbiamo passato un bel momento insieme - c’erano anche diversi bambini - senza parlare troppo di hockey».

Bello per il Ticino

Dal tacchino al derby, la transizione non è evidente. Ma Carrick ha imparato in fretta il significato della sfida che spacca in due il Ticino: «Non ci vuole tanto tempo a capire quale sia l’importanza del derby. Si percepiscono immediatamente le emozioni dei tifosi e ognuno di noi vuole fare una bella figura e vincere anche e soprattutto per loro. Noi prendiamo ogni sfida con serietà. Ma è chiaro che quelle con l’Ambrì sono speciali. Ed è bello per il cantone».
Anche per un giocatore straniero, insomma, il derby non è una partita come un’altra: «Anche in pista si avverte un’energia particolare. Se la comparo a ciò che accade in Nordamerica, è un po’ come una sfida di playoff. Mi ripeto, a rendere l’atmosfera speciale è l’entusiasmo del pubblico, che spinge ogni giocatore in pista a dare il meglio di sé stesso. E anche qualcosa di più. Da professionista posso dire che ci sono incontri in cui si ha bisogno di un’iniezione supplementare di energia: penso per esempio – a volte – alla seconda partita di un doppio turno. O a quella dopo un lungo viaggio. In altre bisogna essere bravi a non alzare troppo il livello delle emozioni. Contro l’Ambrì Piotta dobbiamo giocare in maniera molto strutturata: l’energia che si avverte serve da ispirazione. Alla fine tutti vogliono portare sul ghiaccio i propri punti di forza, individuali e di squadra, per poter fare la differenza».

Uno a testa

Nei primi due derby stagionali ha vinto la squadra che giocava in trasferta: «Penso che sia un caso. Detto ciò, sappiamo di aver avuto un rendimento migliore in trasferta che alla Cornèr Arena, fino ad ora. È un campionato molto competitivo, gli staff tecnici studiano bene gli avversari: giocare davanti al proprio pubblico non è mai una garanzia di successo. Ricordo bene i primi due derby, soprattutto il primo: avevamo avuto le nostre occasioni per vincerlo, ma ci era mancato qualcosa. Durante una stagione, però, le cose cambiano: ora siamo in una fase in cui in pista abbiamo una maggiore costanza di rendimento». Si usa affermare che il derby, di solito, lo vince chi sa gestire meglio le emozioni: «Per vincere una partita ricca di pathos come il derby servono buoni numeri a livello difensivo. Bisogna essere solidi e al tempo stesso è fondamentale la gestione del disco. È il gruppo a fare la differenza in sfide come queste e ritengo che la nostra squadra abbia raggiunto una buona maturità. Parliamo di questo dal primo giorno in cui ci siamo ritrovati tutti insieme, ciò non toglie che abbiamo ancora dei margini di crescita. Ma questo derby vogliamo vincerlo».

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