L'intervista

Gaëtan Haas: «L’incubo di gara-7, i Mondiali e l’esempio di Antti Törmänen»

Imbattuta dopo quattro partite dei Mondiali, oggi e domani la Svizzera affronterà Canada e Cechia. Tra i giocatori più positivi della selezione rossocrociata c’è Gaëtan Haas, centro del Bienne. Lo abbiamo incontrato.
Gaëtan Haas, 31 anni, ha totalizzato un gol e quattro assist nelle prime quattro partite dei Mondiali. © Keystone/Salvatore Di Nolfi
Fernando Lavezzo
20.05.2023 06:00

Riga

Gaëtan, il vostro capitano Nino Niederreiter ci ha parlato di una Nazionale in missione. È così?

«Sì. Dai Mondiali del 2018 a Copenaghen, qualcosa è cambiato a livello di consapevolezza e ambizioni. L’argento del 2013 a Stoccolma aveva sorpreso tutti. Ma da quando Fischer è alla guida della Nazionale, la medaglia è sempre stata un obiettivo. In Danimarca è arrivata, ma non era quella giusta. Nelle tre edizioni successive siamo usciti ai quarti ed è giunto il momento di tornare a fare qualcosa di grande».

Venire ai Mondiali ti ha aiutato a dimenticare la finale di campionato persa con il Bienne?

«È la migliore terapia. Dopo la finale, avevo bisogno di passare ad altro. Non per dimenticare. Non succederà mai. Ma per andare avanti. I giorni dopo gara-7 sono stati molto duri. La telefonata di Fischer è stata un toccasana. Partire per i Mondiali significava avere un nuovo obiettivo. Per qualche settimana, il ricordo della finale persa resterà in disparte».

Raccontaci quei giorni duri dopo gara-7 alle Vernets.

«Non ho accettato la sconfitta. Il Ginevra è stato il grande protagonista di tutto il campionato, ma avevamo la chance di batterlo. In certi momenti abbiamo un po’ perso la testa e questo ci è costato la serie. Quando arrivi a gara-7 della finale di National League con il Bienne, devi cogliere l’occasione e non lasciartela sfuggire».

Intendi dire che quel treno non passerà più? Oppure il Bienne potrà riprovarci ogni anno?

« A Bienne passeranno altri treni. La squadra resterà competitiva. Ma per un club come il nostro, tutto deve andare per il verso giusto. Bisogna arrivare ai playoff al top della forma e avere fortuna. Occorre essere realisti, non andremo in finale ogni anno. A inizio stagione ci sono otto squadre che vogliono prendersi il titolo. E quando ti trovi a una partita dal trionfo, la devi vincere».

Il Bienne ripartirà senza l’allenatore Antti Törmänen, costretto a fermarsi per curare il cancro che lo ha nuovamente colpito. La notizia della sua malattia è stata data alla vigilia delle semifinali contro lo Zurigo. Cosa ricordi?

«Quando ci hanno detto che il cancro di Antti era tornato, eravamo tutti a terra. Increduli e arrabbiati, perché lui non se lo meritava. Ricordo una discussione molto importante con uno psicologo, venuto a parlarci in spogliatoio la sera stessa. Personalmente ho passato una notte molto difficile. Ma il mattino seguente, quando Antti è arrivato in pista, tutto era come prima. Come se nulla fosse successo».

Grazie a lui.

«Esattamente. Si è presentato in spogliatoio come ogni altro giorno e ha iniziato il lavoro. Io e i compagni ci siamo guardati e ci siamo detti: ‘‘Okay, si va avanti, seguiamolo’’. La sua forza è stata incredibile. Quello che ha fatto durante i playoff, nonostante la chemioterapia, è stato un esempio per tutti. A volte ha messo la sua salute in secondo piano pur di essere al nostro fianco. Ha fatto tutto per la sua squadra, dandoci energia. Anche per questo mi fa incazzare non aver vinto il titolo. Lo volevo per Antti».

Pochi giorni dopo aver perso la finale, sei andato in ritiro con la Nazionale e ti sei trovato davanti tre ginevrini: Richard, Miranda e Mayer. Non deve essere stato di grande aiuto per dimenticare.

«Confesso di aver sottovalutato questo aspetto. Non immaginavo che incontrarli in Nazionale mi avrebbe influenzato. I primi giorni sono stati un po’ duri. Loro tre continuavano a parlare della finale, della festa. Era l’unico argomento di cui io non volevo più sentire nulla. Quando il Mondiale è iniziato, però, siamo tutti passati ad altro. Adesso anche loro hanno un nuovo obiettivo. E stavolta cercheremo di raggiungerlo insieme. Marco Miranda è in linea con me e ci troviamo molto bene».

Sei tornato ai Mondiali dopo quattro anni. In mezzo hai vissuto due stagioni in NHL a Edmonton. Come ti ha cambiato l’esperienza nordamericana?

«Bella domanda. Le due stagioni con gli Oilers mi hanno fatto perdere molta fiducia nel mio hockey offensivo, visto che giocavo solo pochi minuti in quarta linea. Allo stesso tempo, ho imparato tante cose. Mentalmente è stato difficile, ma anche formativo. Essere tutto solo, oltreoceano, mi ha fatto maturare. Quando sono partito ero ancora un ragazzino che giocava a hockey, nonostante avessi già 27 anni. Al mio ritorno ero un uomo. Mi tengo stretta questa crescita personale, anche se a livello sportivo è stata dura».

Le tue due stagioni in Nordamerica sono state condizionate dalla pandemia. Questo ti ha reso il compito ancora più difficile?

«Il COVID ha messo in difficoltà chiunque, non è stata più dura per me che per altri. Senza pandemia mi sarei sentito meno solo, questo sì. Parenti e amici avrebbero potuto venire a vedermi in Canada».

Dopo il primo anno a Edmonton, nonostante le difficoltà, non hai voluto mollare. Perché?

«Perché avevo comunque giocato tanto. Quasi 60 partite. Mi mandarono in AHL soltanto due volte. Insomma, mi dicevo che un posto in squadra ce l’avevo. Giocavo pochi minuti in quarta linea, è vero, ma giocavo. Ho pensato che valesse la pena insistere. Ho rinnovato con gli Oilers perché avevano creduto in me, anche se avrei voluto più spazio. Il secondo anno ho giocato di più in box-play, i miei minuti sono un po’ aumentati, ma a livello offensivo continuavo a non ricevere nulla. Nei playoff, come l’anno prima, ho giocato soltanto gara-3 del primo turno, poi siamo usciti. Quella è stata la mia miglior partita in assoluto in NHL. Ancora una volta, sentivo di aver mostrato qualcosa di buono. Se un’altra squadra mi avesse sottoposto una proposta interessante, avrei proseguito la mia carriera lì. Invece sono tornato in Svizzera».

Nella stagione 2021-22, la prima dopo il tuo ritorno a Bienne, è emersa quella mancanza di fiducia di cui parlavi prima: solo 6 gol e 18 assist in 44 partite...

«Esattamente. Per due anni avevo giocato solo 5-10 minuti a partita. E mai con compiti offensivi. Tutti pensavano che in Svizzera sarei subito tornato quello di prima, che avrei di nuovo collezionato tanti punti. Ma non funziona così. Le occasioni le avevo, la fiducia no. Mancava sempre qualcosa nel tiro o nell’ultimo passaggio. C’è voluto del tempo per ritrovare le migliori sensazioni, ma a Bienne mi hanno sempre sostenuto. L’ultima stagione è stata buona. Sono finalmente tornato quello di prima».

Sul Blick, dove curi una rubrica dedicata ai Mondiali, hai parlato delle differenze tra romandi e svizzero-tedeschi. E i ticinesi?

«Ma per me i ticinesi sono romandi (ride, ndr.). Tutti quelli che conosco parlano francese. Li adoro. Io conosco qualche parola in italiano, ogni tanto provo a sorprendere Fora e Simion, ma devo migliorare».

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