«Grazie Lugano, sarai sempre casa mia»

Dopo diciotto anni, l’avventura ticinese di Steve Hirschi si sta per concludere. L’ex difensore e capitano bianconero ha infatti deciso di tornare nella sua Langnau, dove lavorerà come coach dell’Under 15: «Partirò dopo Pasqua», ci ha raccontato in questa intervista di commiato.
Steve, l’addio si avvicina: stai tornando a casa o la stai lasciando?
«Entrambe le cose. Lugano e Comano sono casa mia, ci ho passato metà dell’esistenza. Mi sono sempre trovato bene, i miei figli sono nati e cresciuti qui. In Ticino ho incontrato tante belle persone, anche al di fuori dell’hockey, e la qualità di vita è davvero eccezionale. D’altra parte, però, sono molto contento di riabbracciare l’Emmental, dove ho le mie radici. Saremo più vicini a genitori, nonni, fratelli, sorelle. Insomma, anche lì mi sentirò nuovamente a casa. La mia famiglia è felicissima, siamo convinti di questa nostra scelta. La decisione, infatti, l’avevamo già presa da tempo, ancora prima che arrivasse l’offerta dei Langnau Tigers».
Cosa ti ha trattenuto in Ticino così a lungo?
«Come dicevo, la qualità della vita ha fatto la sua parte. Ma il motivo principale è l’HCL. Per me è stato sempre un onore giocare per il Lugano, anche in tempi difficili, avari di successi. Il mio obiettivo era vincere ancora un titolo dopo quello del 2006. Non ci sono riuscito, ma va bene così. Negli anni ho ricevuto altre offerte, ho avuto varie occasioni per andarmene via prima, ma alla Resega stavo troppo bene. Il club ha fatto di tutto per me, anche in periodi personali complicati, caratterizzati da tanti infortuni. Volevo restituire qualcosa a questa società, restandole fedele fino alla fine».
Sei arrivato a Lugano nel 2003. Quanto pensavi di rimanerci?
«Se non sbaglio, il primo contratto era un biennale. Avevo 22 anni, cercavo una nuova esperienza in una squadra di vertice, reduce dal suo sesto titolo nazionale. Non sapevo cosa aspettarmi, volevo godermi un giorno alla volta. Ricordo un po’ di nervosismo iniziale, ma in spogliatoio mi sono subito trovato bene».
Nel 2006 hai vinto il titolo con un ginocchio distrutto. In seguito, questo sacrificio ti è costato molti guai fisici. Rifaresti la scelta di giocare quei playoff?
«Ho conquistato un campionato da protagonista, vivendo emozioni incredibili che altrimenti non avrei mai provato. È vero, negli anni successivi ho pagato un prezzo elevato, soffrendo parecchio. Quel maledetto ginocchio ha subìto otto operazioni. Ma in fondo è stata una mia decisione. L’unica che volessi prendere in quel momento».
Negli ultimi quattro anni hai lavorato nel settore giovanile del Lugano, tra Under 13 e Under 15. Che esperienza è stata?
«Nei primi tre anni sono stato allenatore, mentre per questa stagione ho preferito fare un passo indietro, dando le dimissioni e fungendo soltanto da assistente. Lavorare con i ragazzi di quell’età è bellissimo. Farli crescere è una grande sfida, non sempre facile. È un compito impegnativo, a volte anche duro. Ma è parecchio appagante e mi piace un sacco. L’hockey mi ha dato tanto e questa è un’opportunità per restituire qualcosa. Per lo stesso motivo, ho accettato la nuova sfida con l’U15 dei Tigers».
A Langnau troverai una realtà diversa, nella quale l’hockey ha poca concorrenza. Giusto?
«Ai miei tempi era così, per i ragazzi c’era soltanto il ghiaccio, ma oggi la situazione è un po’ cambiata. Ci sono più opzioni. L’unihockey, ad esempio, è cresciuto tanto e attira molti giovani della regione. Anche il calcio ha guadagnato terreno. Ma giocare nei Tigers, o almeno provarci, fa ancora parte del percorso di tanti giovani ‘‘langnauer’’. Si indossa quella maglia con orgoglio. Io sono stato via per tantissimi anni, dunque dovrò imparare a muovermi in un contesto molto diverso da quello che conoscevo».
Ti aiuterà tuo papà Johann, che collabora ancora con i Tigers...
«Sì, è assistente della Under 13. Ultimamente discutiamo spesso della questione, cerco di carpirgli tante informazioni, ma in fondo è sempre stato così: da quando sono partito, diciotto anni fa, papà mi ha costantemente tenuto aggiornato su tutto ciò che accadeva nell’orbita del club. I Tigers sono sempre stati presenti nella mia vita».
Chiederai a tuo papà di assisterti nella Under 15?
«No, no, va benissimo così. Ci vediamo già abbastanza. La struttura, poi, funziona perfettamente. Non è necessario cambiare troppe cose».
Tuo padre è assistente di Martin Gerber, vincitore di una Stanley Cup. Un grande esempio per i giovani della vostra regione...
«I dodicenni di oggi conoscono il suo palmarès, ma non possono ricordarsi di lui come portiere. All’inizio sono colpiti, c’è un ‘‘effetto wow’’, ma dopo due mesi qualsiasi allenatore diventa un rompiscatole come tutti gli altri (ride, ndr.). È giusto così».
Lo sport giovanile ha sofferto parecchio in quest’anno di pandemia. Che situazione hai vissuto con i ragazzi del Lugano?
«Fortunatamente in Ticino abbiamo potuto continuare gli allenamenti. Altrove è andata peggio, si è fermato tutto. I ragazzi erano motivati, avevano bisogno di sfogarsi. La competizione gli è mancata, sì, ma in queste ultime settimane sono tornate anche le partite. Inoltre abbiamo sempre proposto delle sfide interne, mantenendo il ritmo».
Steve Hirschi non ha giocato la sua ultima gara nel 2017 con il Lugano, bensì lo scorso ottobre in 2. Lega con il Pregassona-Ceresio: un 13-7 rifilato al Chiasso, con tanto di gol decisivo...
«È stato divertente. Dopo tre anni di inattività, sentivo il bisogno di tornare a muovermi un po’. Avevo del tempo libero, così ho iniziato ad allenarmi con loro, poi ho giocato due partite prima che il campionato si fermasse per la COVID. È stato piacevole ritrovare certe dinamiche di squadra. Mi mancavano».
Hai scelto il numero 33 in omaggio a Petteri Nummelin?
«Beh, l’8 era già occupato da Claudio Ghillioni. In realtà il 33 l’ho sempre usato in Nazionale, ma l’ho voluto anche per Nummy, uno dei tanti amici incontrati in questi indimenticabili anni ticinesi».