Hockey

Il giro del mondo con Andrighetto: «La Nazionale è un gruppo di amici»

L’attaccante rossocrociato ci parla della sfida odierna con la Gran Bretagna, delle sue esperienze tra Nordamerica e Russia e del suo ritorno a Zurigo
© Keystone/Salvatore Di Nolfi
Fernando Lavezzo
01.06.2021 06:00

Giornata di foto ufficiali, ieri, per la nazionale rossocrociata a Riga. Ne esistono due versioni: con e senza mascherina. Nella prima, si nota un giocatore con la mascherina sugli occhi. È Sven Andrighetto, mattacchione del gruppo. «Sappiamo divertirci, ma quando serve siamo molto seri», ci racconta l’attaccante zurighese.

Ieri sera la Svezia ha perso con la Russia, qualificando la Svizzera ai quarti di finale con una gara d’anticipo. Un pensiero in meno per la sfida di stamattina (11.15) con la Gran Bretagna...
«Per noi la sostanza non cambia: vogliamo vincere per puntare al secondo posto e restare in fiducia. Abbiamo guardato la partita in Tv. Non perché c’era in ballo il passaggio del turno, ma per amore dell’hockey. Russia-Svezia è tradizionalmente una bella sfida. Noi abbiamo perso con entrambe e c’è sempre da imparare».

Meno tradizionale, quasi esotica, sarà la partita coi britannici.
«Per me è una novità assoluta, non li ho mai affrontati. Ma sarebbe un errore prenderli sottogamba. Non sono degli sprovveduti e stanno disputando un buon torneo. Hanno battuto la Bielorussia, strappato un punto alla Danimarca e tenuto testa a Slovacchia e Svezia. Lavorano sodo».

Nelle ultime tre partite sei stato schierato con Meier e Vermin, come nel 2018 a Copenaghen. La magia tra di voi è tornata subito?
«Si direbbe di sì, le cose stanno andando bene. Timo e Joël sono due attaccanti molto dotati e complementari, con loro mi diverto un sacco. Tre anni fa in Danimarca avevamo creato un’alchimia speciale, contribuendo al raggiungimento della finale. Nelle ultime gare Patrick Fischer ha deciso di rimetterci insieme e abbiamo immediatamente ritrovato le sensazioni di allora».

Firmare per lo Zurigo è stata una delle migliori decisioni della mia carriera; sentivo il desiderio di tornare a casa

Nella finale di Copenaghen contro la Svezia avevi portato in vantaggio la Svizzera ai rigori. È finita come sappiamo, ma cosa ti resta di quegli attimi intensi?
«Quel rigore fu una gioia effimera, di brevissima durata. A fine incontro provavo solo tristezza. Con il passare del tempo, però, mi accorgo di quanto quei momenti mi siano rimasti nel cuore. Fu un torneo incredibile, ricco di emozioni. Ora siamo qui per riprovarci».

Sei reduce dalla tua prima stagione con lo Zurigo dopo otto anni trascorsi in Nordamerica e uno nella KHL russa. Tornare in Svizzera è stata la scelta migliore?
«Al 100%. Sono felice, è stata una delle migliori decisioni della mia carriera. C’erano tante squadre interessate a me, potevo scegliere tra diverse leghe, ma sentivo il desiderio di tornare a casa. Era arrivato il momento giusto. Sono nato a Dübendorf, dove ho iniziato a giocare già da piccolino. A 12 anni sono entrato nell’organizzazione degli ZSC Lions, a 16 ho esordito in NLB con il GCK, a 18 sono partito per il Canada. Insomma, ho atteso fino ai 27 anni per debuttare nel massimo campionato del mio Paese, con la squadra della mia città. È stata una bella stagione. All’inizio, mi sono sentito come un novellino. O come uno straniero che scopre l’hockey svizzero per la prima volta. A livello sportivo, era tutto nuovo. Però conoscevo perfettamente la città, l’ambiente e molti dei miei compagni. Questo mi ha aiutato. Peccato per l’assenza di pubblico. Non vedo l’ora di giocare davanti a migliaia di tifosi urlanti, dall’Hallenstadion fino al Ticino».

Hai disputato 227 gare di NHL in cinque anni, con Montréal e Colorado. Quel mondo ti manca?
«Sono già passate due stagioni dalla mia ultima partita in NHL e non ho rimpianti. Sono atterrato in Québec a 18 anni e ho lasciato il Colorado a 26. Ho assimilato lo stile di vita canadese e statunitense, mia moglie è di Denver e ogni tanto quella realtà mi manca. Quando ero lì, però, mi mancava Zurigo. Sul piano sportivo, ho dovuto rivedere le mie abitudini. Non solo perché in America le piste sono più piccole, ma anche perché lì si giocano più partite, con lunghe trasferte e meno tempo per allenarsi».

© Keystone/Salvatore Di Nolfi
© Keystone/Salvatore Di Nolfi

Si dice che un giocatore di hockey non ha conosciuto la vera pressione se non ha indossato la maglia dei Montréal Canadiens.
«Lo confermo. Ma è una pressione stimolante, figlia della passione: i tifosi vivono per la squadra, amano l’hockey alla follia e pretendono il massimo. Odiano perdere e te lo fanno capire. Giocare per i Canadiens è un privilegio: all’inizio non lo sapevo, ma l’ho imparato in fretta. Non è solo sport, è cultura, tradizione. È stato un onore essere draftato da Montréal e poter giocare un’ottantina di partire con loro».

I tuoi anni migliori, però, li hai vissuti in Colorado...
«Essere ceduto agli Avalanche nel marzo del 2017 ha dato una svolta alla mia avventura oltre oceano. All’epoca Colorado stava ricostruendo la squadra e c’erano molte opportunità anche per me. Nei due anni successivi, abbiamo raggiunto i playoff e questo ha spinto il club a dare più spazio ai veterani e ai giocatori più fisici. Ciò nonostante, i miei ricordi più belli riguardano proprio i playoff. Partite intense, bellissime. Seguo ancora gli Avalanche, sono in contatto con alcuni vecchi compagni e faccio il tifo per loro. Quest’anno sono stati la squadra migliore della regular season e credo che abbiano una concreta chance di vincere la Stanley Cup. Se non subito, sicuramente nei prossimi due o tre. Sarei felicissimo per loro».

In Russia ho avuto conferma che i soldi non sono tutto, mi mancavano la famiglia e gli amici

Cosa hai imparato nella stagione 2019-20, trascorsa in KHL con i russi dell’Avangard Omsk?
«Ho imparato una cosa che già sapevo, ma che ho capito più chiaramente: i soldi non sono tutto. Se mi guardo indietro, è stata un’esperienza positiva, interessante, diversa da tutto il resto. Ma alla mia età ho realizzato di volere altre cose. Sento il desiderio di essere circondato da amici e familiari, di godermi ogni momento libero, di giocare per divertirmi pur lavorando sempre sodo. L’hockey è un business, devi essere performante ogni sera, ma in Russia mi mancava quel contorno fatto di affetti, di amici e di parenti. Quando stai bene anche fuori dal ghiaccio, giochi molto meglio».

La nazionale svizzera sembra proprio così: un gruppo di amici.
«È la nostra arma in più. Venire ogni anno in Nazionale è un piacere; i Mondiali di hockey sono un appuntamento a cui teniamo molto. Ce lo segniamo in agenda, sperando di esserci. Ci divertiamo, ci rispettiamo, andiamo tutti d’accordo e ci aiutiamo a vicenda. Si vede anche sul ghiaccio. Sappiamo quando possiamo divertirci un po’ e quando invece bisogna restare seri e ben concentrati. Approfittiamo dei giorni liberi per svagarci insieme, giocando a carte o a ping pong. Ma quando si tratta di vincere una partita di hockey, siamo pronti a combattere gli uni per gli altri».

Chi è il migliore a ping pong?
«Abbiamo un vero e proprio ranking. Al comando, attualmente, dovrebbe esserci Romain Loeffel. È davvero molto bravo, ho il sospetto che a Lugano abbiano un tavolo da ping pong nascosto nello spogliatoio. Altrimenti non si spiega questa sua supremazia...».