Hockey

Lassi Laakso: «Da 6 anni vivo per il Lugano»

Il preparatore atletico dei bianconeri ci racconta la sua storia tra Finlandia, Vallese e Ticino
Lassi Laakso, 36 anni, ritratto nella palestra della Cornèr Arena (Foto Reguzzi).
Fernando Lavezzo
07.06.2019 19:06

Finlandese, vallesano e ticinese. Lassi Laakso, da 6 anni preparatore atletico dell’HC Lugano, è tutto questo. Classe 1983, ha un passato come giocatore. Del suo lavoro si parla spesso, soprattutto in estate, quando la squadra è affidata a lui. Stavolta ci racconta la sua storia.

Specchi, panche, cyclette, bilancieri. «Benvenuti nel mio ufficio», dice Lassi Laakso accogliendoci in palestra. Alla Cornèr Arena sono cambiate tante cose: ds, coach, vice. Lui è ancora lì: «Non si può dare per scontato un lavoro come il mio. Mi sento molto grato, privilegiato. Faccio tutto il possibile per meritarmi questa fiducia. Sono molto esigente con me stesso. E ambizioso. Se do sempre il massimo, posso sentirmi in pace con me stesso: è la cosa più importante. È la mia settima stagione a tempo pieno in questo ruolo con l’HCL. Da 6 anni do la mia vita per questo club. Dall’anno scorso sono anche tornato a studiare: seguo infatti un master a distanza in ‘‘strenght and conditioning’’. L’idea è quella di migliorarmi sempre. Voglio vedere il Lugano vincere e cerco di fare la mia parte con ogni mezzo».

Dove inizia la tua storia?

«In Finlandia. Sono nato lì il 23 gennaio del 1983, ma alla fine del 1985 la mia famiglia si è trasferita in Svizzera. Papà lavorava nell’industria del legno e questo ci portò in Vallese, a Martigny. Sembrava temporaneo, ma ci rimasi fino ai 17 anni. Cominciai a giocare a hockey nel Martigny, debuttando in Prima Lega. A 18 anni andai in Canada per l’ultimo anno di liceo, giocando per il Notre Dame College. Presi la maturità, poi tornai in Europa».

Con quale destinazione? E quali sogni?

«L’idea era di tornare a vivere in Finlandia. Trascorsi l’estate lì, da mia nonna. Mi allenavo con gli juniores dello Jokerit Helsinki, ma non ero un giocatore speciale in quella squadra. Da quel gruppo fortissimo uscirono tanti campioni di NHL. Gente come Kari Lehtonen, Valtteri Filppula, Sean Bergenheim, Sami Lepistö. Io feci diversi provini per vivere di hockey. Il messaggio di mia mamma era chiaro: ‘‘O riesci ad arrangiarti con lo sport, oppure torni in Svizzera e riprendi gli studi’’. Un giorno arrivò la chiamata di Jim Koleff, direttore sportivo del Lugano. Mi propose di raggiungere gli juniores élite bianconeri e così approdai in Ticino».

Nel 2002-03 giocai la mia prima e ultima partita in NLA: fu Larry Huras a farmi esordire contro il Friburgo di Thibaut Monnet, mio grande amico dai tempi di Martigny

Raccontaci quel periodo alla Resega.

«Il secondo anno, nella stagione 2002-03, venni aggregato alla prima squadra. Purtroppo mi infortunati in agosto e rimasi fuori fino a fine ottobre. Una settimana dopo il mio rientro, cambiò l’allenatore: via Koleff, dentro Huras. Fu Larry a farmi esordire in NLA. Quella partita casalinga contro il Friburgo me la ricordo benissimo. Entrai nel terzo tempo, tra mille emozioni. Nel Gottéron c’era Thibaut Monnet, mio grande amico di Martigny. Me lo trovai di fronte al primo cambio...».

Fu la tua prima e ultima partita in A.

«Ero abbastanza sicuro dei miei mezzi e c’era un certo interesse per il mio prossimo contratto. Invece non giocai più. A fine campionato firmai per tre stagioni a Ginevra, ma non tutto andò come sperato. Ci furono delle storie poco piacevoli tra Martigny e Ginevra, legate alla vendita della mia licenza. Per farla breve, parlerei di speculazione finanziaria. Mi sentii trattato come una merce. Iniziai il campionato a Martigny, in Prima Lega, convinto che poi mi avrebbero lasciato andare a Ginevra. Purtroppo, dopo un mese in Vallese, mi infortunai di nuovo al ginocchio, saltando l’intera stagione. In seguito il Servette cancellò il mio contratto».

(Foto Reguzzi)
(Foto Reguzzi)

E qui torna in gioco il Lugano.

«Esatto. Rifirmai con i bianconeri per giocare nel Coira, il loro farm team di NLB. Iniziò così la mia avventura nel campionato cadetto, che dai Grigioni mi portò a La Chaux-de-Fonds, Martigny e infine a Basilea. Smisi nel 2009, a 26 anni».

Avevi già iniziato a pensare al futuro?

«Sì. Nel 2008 a Martigny subii una grave commozione cerebrale. Vissi mesi difficili: non potevo leggere il giornale o guardare la tele. Dovevo stare sdraiato e al buio. Avevo 25 anni, un’età che ti permette di capire tante cose. A 18 anni sei disposto a dare tutto per una carriera nell’hockey. Io, a quel punto, non lo ero più. La salute migliorò, giocai un’altra bella stagione a Basilea, ma era chiaro che quel capitolo stava per chiudersi. Avevo già iniziato la formazione di istruttore fitness e di personal trainer. Più che altro per interesse personale. A fine estate il Lugano mi chiamò un’altra volta: si era liberato il posto di assistente allenatore dei Novizi e c’era pure la possibilità di giocare in Prima Lega con il Ceresio. Accettai. Era il classico treno da non farsi scappare. Mia moglie è ticinese e tornare a Lugano era la cosa migliore».

Dal ghiaccio alla panchina, quindi...

«Per tre anni feci il vice dei Novizi e nel frattempo avviai una mia attività di personal training. In seguito passai agli juniores come assistente allenatore e preparatore fisico. Volevo lavorare a tempo pieno nello sport. È il mondo che più mi stimola. Daniel Hedin, preparatore fisico della prima squadra, era il mio mentore. In panchina, invece, lavorai con McNamara. Poi lui andò a Losanna e io terminai la stagione con Hnat Domenichelli prima e Luli Riva poi. Il secondo anno feci da assistente a Christian Wohlwend e venni promosso a preparatore della prima squadra. Hedin era il responsabile, ma veniva a Lugano solo occasionalmente. Io lavoravo quotidianamente con i ragazzi mettendo in pratica i suoi programmi. Al fianco di Daniel sono cresciuto molto e il definitivo passaggio di consegne fu naturale».

Da ragazzo mi sentivo più finlandese che svizzero. Per via dei miei genitori, della lingua di casa, delle vacanze dai nonni. Col tempo, però, ho capito che anche la Svizzera è il mio Paese

In panchina ci sei poi tornato nella stagione 2016-17, con Ireland...

«Greg subentrò a Shedden e il suo debutto era previsto a Ginevra. Lui ci avrebbe raggiunti direttamente lì, ma non si sapeva se avrebbe fatto in tempo. Nel dubbio, mi chiesero di accompagnare la squadra insieme a Silander. Ireland arrivò in tempo, ma mi volle comunque in panchina. Per la gara seguente mi propose di andarci ancora. La storia si ripeté per cinque o sei volte, poi smise di chiedermelo. Era diventato automatico e andai avanti fino a fine stagione. Fu una bella esperienza. Quando smisi con gli juniores sapevo di non voler allenare. Non era la mia strada. Ma quella con Ireland fu una parentesi piacevole. Realizzai quanto fosse intensa una partita di questo livello per un coach. Conoscevo il mio ruolo: a volte prestavo soltanto un orecchio per gli sfoghi di Greg, altre volte mi chiedeva un’opinione. La mia presenza era soprattutto la dimostrazione di un’ottima intesa nello staff».

Cosa è rimasto di finlandese in Lassi?

«Da ragazzo mi sentivo più finlandese che svizzero. Per via dei miei genitori, della lingua di casa, delle vacanze dai nonni. Col tempo, però, ho capito che anche la Svizzera è il mio Paese. Oggi, quando i rossocrociati affrontano la Finlandia, tifo per entrambe. Ho due figli e con loro parlo in finlandese per tenere vive le mie radici. Di finlandese è rimasta una parte del mio carattere, del modo di pensare. In Finlandia c’è un’attitudine stoica verso le cose. Si affrontano le difficoltà senza farsi troppi problemi. Si abbassa la testa e si va avanti. I miei nonni hanno vissuto la guerra. E la povertà, quella vera. Passando tanto tempo con loro, certi valori mi sono rimasti attaccati. Bisogna lavorare per ottenere ciò che si vuole. Non dico che in Svizzera non sia così, anzi. Ma quelle sono caratteristiche tipiche della mia Finlandia. Le associo a mia nonna. Lei ha una cultura sportiva e una voglia di vincere impressionanti, che non immagineresti mai in una signora anziana. Tutto questo è dentro di lei».