Michael Fora: «Sul ghiaccio o con un libro mi nutro sempre di nuove scoperte»

C’è un solo ticinese ai Mondiali. È Michael Fora, difensore del Davos ed ex capitano dell’Ambrì Piotta. Alla soglia dei 30 anni e al suo settimo grande torneo, il ragazzo di Giubiasco può essere considerato un perno della Nazionale. Lo abbiamo incontrato mercoledì durante il Media Day della Svizzera.
Mike, scorriamo la lista dei tuoi precedenti Mondiali: Copenaghen 2018, Bratislava 2019, Helsinki 2022, Riga 2023, Praga 2024. Cinque capitali di grande fascino. È tanto diverso giocare in una cittadina come Herning?
«Sì e no. Di fatto ci si concentra solo sull’hockey. Si mangia, si dorme, si va in pista. In fondo siamo qui per giocare un Mondiale, non per fare i turisti. La città è piccola, ma ha un suo fascino. Apprezzo il fatto che intorno ci sia tanto spazio. E tanto verde. Le infrastrutture, l’hotel e il cibo sono ottimi, l’organizzazione pure. Non abbiamo bisogno d’altro».
Cosa fai nei momenti liberi?
«Per visitare la città mi è bastata una giornata, ora vado spesso al parco vicino all’hotel, immerso nella natura. Abbiamo una sala adibita ai giochi di società e mi piace frequentarla. Oppure resto in camera in compagnia di un buon libro. Sono un lettore vorace».
Cosa stai leggendo?
«Ho appena finito La pura vida di Gianluca Gotto. Non sono tipo da romanzi, ma questo autore mi ha sorpreso. Tra le sue pagine ho trovato insegnamenti che vanno al di là della semplice trama. Normalmente, sono più attratto da saggi scientifici e psicologici. In un libro cerco qualcosa che mi dia la possibilità di crescere oltre l’hockey. Quando sono in pista voglio progredire come giocatore, quando sono fuori voglio progredire come individuo. Le due cose devono andare di pari passo. La vita è molto di più di un paio di pattini, un disco e un bastone».
Quanto sei cambiato da un Mondiale danese all’altro, da Copenaghen 2018 a Herning 2025?
«Tanto. E mi ripeto: non solo come giocatore, anche come uomo. Finché manterrò questa curiosità, questa voglia di imparare, potrò continuare a cambiare. È interessante scoprire fin dove possiamo spingerci. Non ci sono limiti predefiniti. Nello sport, è tutta una questione di passione. Quanto fuoco hai dentro di te? Quanto sei disposto a dare? Ogni stagione, ogni Mondiale, è per me un’occasione di crescita. Quando torno a casa analizzo tutto. Quali passi in avanti ho fatto? Quali posso ancora fare? Quali ambiti devo ancora esplorare? Sono perennemente alla ricerca di nuovi limiti, di nuove scoperte. Per me sono puro ossigeno».
Questo ti porta magari ad essere troppo severo con te stesso? O con gli anni hai imparato anche ad accettarti e ad essere più indulgente nell’autoanalisi?
«Essere duro con me stesso è una caratteristica che a volte, durante la mia carriera, mi ha frenato. Ma altre volte mi ha dato tanto. È un aspetto che ho dovuto imparare a gestire, a bilanciare. Usandolo a mio favore e non contro di me. Quando ci riesco, sento di poterne trarre benefici enormi».
Nel 2018, dopo il tuo primo Mondiale, si sono aperte le porte del Nordamerica. Per un po’ hai cullato il sogno della NHL nell’orbita dei Carolina Hurricanes, ma le cose non sono andate come speravi e sei tornato presto ad Ambrì. Ripensando a quell’esperienza, hai qualche rimpianto? O sei più amareggiato per non avere avuto una chance concreta? O, ancora, sei semplicemente contento di averci almeno provato?
«Non ho rimpianti, tornando indietro prenderei la stessa identica decisione, nello stesso momento e nello stesso modo. Quell’esperienza mi ha dato tanto, ho conservato ricordi positivi. Non è andata come avevo pianificato, è vero, ma ho potuto osservare quel mondo dall’interno e capire come funziona l’organizzazione di una franchigia NHL».
In quel periodo, in tanti hanno commentato le tue scelte: prima quella di partire, poi quella di tornare in anticipo. Ti ha ferito sentire o leggere certe cose?
«Onestamente no, non mi ha né ferito, né infastidito. Quando si pratica uno sport popolare si è sotto molti occhi e non bisogna prendere le cose troppo sul personale. Lo dico sempre: ‘‘Decidere con la propria testa, sbagliare con la propria testa’’. L’importante, quando ti guardi indietro, è non avere rimpianti. E io, come detto, non ne ho. Rispetto quello che dicono gli altri. Lo accetto. Ognuno ha il diritto di avere un’opinione. I consigli li ascolto sempre, perché è un segno di umiltà. Poi raccolgo le informazioni, valuto le opzioni e decido per conto mio. Oggi resto convinto delle mie scelte, della mia carriera e della mia vita».
Dal 2018 hai saltato un solo grande torneo internazionale, i Mondiali di Riga del 2021, nella stagione della pandemia. Ti senti un perno della Nazionale?
«Per me ottenere un posto ai Mondiali o alle Olimpiadi è sempre una conquista. Ogni anno so di dover giocare il mio miglior hockey per poter sperare in una convocazione. Nel 2021 non sono rimasto fuori per caso. Ho pagato quell’essere troppo severo con me stesso di cui parlavamo in precedenza. Ricordo perfettamente il giorno in cui ho preso la mia borsa e ho lasciato il ritiro dopo un meeting molto onesto con Patrick Fischer. Mi ha detto: “Mike, tu sei troppo duro con te stesso. Dall'esperienza di quest'anno imparerai moltissimo e potrai crescere ancora”. Aveva ragione».
Però dai, un perno della Nazionale lo sei diventato davvero.
«Se sono qui a giocare il mio sesto Mondiale lo devo alla passione che ci metto ogni giorno. In questa Nazionale c’è sempre più talento e per il coach è sempre più difficile fare delle scelte. Se vuoi far parte del gruppo, non puoi mai adagiarti. Andres Ambühl è un esempio perfetto: in oltre vent’anni di carriera ha visto il gioco cambiare tantissimo, ma ha avuto la capacità e lo spirito di adattarsi ad ogni novità. Büehli era ai Mondiali nel 2004 ed è di nuovo ai Mondiali nel 2025. Forse il segreto è non accontentarsi mai dei traguardi raggiunti».
Nel 2015 hai giocato un Mondiale U20 con Denis Malgin, Timo Meier, Kevin Fiala, Pius Suter, Jonas Siegenthaler. Una generazione straordinaria. Avevate la percezione di essere un gruppo così speciale oppure quel torneo, chiuso con uno spareggio-salvezza contro la Germania, vi fece dubitare del vostro valore, tenendovi con i piedi per terra?
«Sapevamo di avere una buona squadra e infatti quel risultato fu deludente. Avevamo la sensazione che un giorno, ritrovandoci insieme, avremmo potuto fare grandi cose. Ma la nostra forza, a livello individuale e di gruppo, era proprio quella di non guardare troppo avanti. Tutti i giocatori che hai citato non hanno mai smesso di lavorare sodo, giorno dopo giorno. Oggi è bello ritrovarsi insieme a inseguire un altro sogno iridato. Avere un nucleo di giocatori che si conoscono da così tanto tempo è uno degli atout di questa Nazionale. L’affiatamento è contagioso, chiunque si unisce si sente subito parte di una famiglia».
Da tre anni giochi nel Davos. Immaginiamo che la pressione di media e tifosi, nei Grigioni, non sia paragonabile a quella che avevi quotidianamente ad Ambrì, oltretutto da capitano. Ti senti un po’ più leggero?
«Nella prima parte della carriera vivevo l’Ambrì Piotta come una cosa mia, una parte di me. E lo stesso valeva per gli altri giocatori ticinesi. Sentivamo di doverci mettere tutto il peso sulle spalle per trainare la squadra con le gambe e con il cuore. In quel periodo ho indubbiamente conosciuto il più alto livello di pressione. E oggi mi dico che è stata una fortuna. Tutti quei momenti – penso soprattutto allo spareggio salvezza contro il Langenthal – mi hanno fatto crescere enormemente. È stata un’ottima scuola. Meglio gestisci quella pressione psicologica, meglio performi sul ghiaccio. Andando a Davos, mi sono spogliato di questa caratteristica di voler fare tutto. Ho imparato a condividere le responsabilità. Mi sono convinto che per fare il prossimo passo avrei dovuto imparare a ignorare i fattori esterni».
Dopo tre stagioni nei Grigioni, qual è il tuo bilancio personale?
«Sono contento. I media si vedono poco, mi capita raramente di rilasciare interviste. Tutto ruota attorno all’hockey ed è bello vedere qualcosa di così diverso dal Ticino. Però, lo ribadisco, non cambierei mai il modo in cui è iniziata la mia carriera. Vivendo certe dinamiche sin da giovane, ho imparato immediatamente ad affrontarle di petto, senza mai nascondermi, esponendomi».
L’anno scorso c’erano state delle voci di mercato su un tuo ritorno in Leventina, nonostante un contratto con il Davos valido fino al 2026. Come avevi vissuto quei rumour? Ti avevano infastidito? Ci avevi riso sopra?
«Ho provato emozioni contrastanti. Non mi ha dato fastidio la speculazione in sé, ognuno è responsabile di ciò che dice e che scrive. A un certo punto, però, i mei compagni di squadra hanno iniziato a chiedersi se volessi davvero andarmene e a chi dovessero credere. Ho avuto la percezione che ci fossero dei dubbi su di me. Non è stato piacevole, ma ho capito di non dover dimostrare niente a nessuno. Poi le acque si sono calmate in fretta».
Possiamo spegnere subito i possibili rumour dell’estate 2025?
«Certo, spegnamoli pure. Non mi vedrete in biancoblù neanche la prossima stagione».
Cambiamo sport: tra un mese tua sorella Nancy giocherà gli Europei di basket. Un traguardo storico, visto che la nazionale femminile non si qualificava da 69 anni. Come l’hai vissuto?
«Con emozione e orgoglio. Come fratello maggiore, sono fiero di lei. Il basket femminile è poco sotto i riflettori. Meno di quanto queste ragazze meriterebbero. Nancy è come me: lavora tantissimo per raggiungere i suoi obiettivi. Proprio in questi giorni sta giocando la finale dei playoff in Francia, dunque penso spesso anche a lei».
Un conto è ereditare la passione per lo sport dai propri genitori, un altro è diventare eccellenze nelle rispettive discipline. Cosa avete di così speciale in famiglia?
«I nostri genitori non ci hanno mai spinto a fare qualcosa di particolare. Ci hanno lasciato scegliere, sperimentare, cambiare. Io ho iniziato con il calcio, poi sono passato al tennis, e ho provato pure il basket, quando mia sorella ha cominciato a praticarlo a Bellinzona. Entrambi abbiamo scelto la strada che sentivamo essere quella giusta per noi. Abbiamo seguito il richiamo della passione, senza nessuna interferenza esterna. Un atleta diventa bravo in proporzione alla passione che ha dentro. Quel fuoco ci ha portato fin qui. Io a un Mondiale, lei a un Europeo».