Nel mondo di Steinmann: «A Lugano giocai la mia ultima partita, tornare qui è stato un nuovo inizio»

Se il Lugano può godersi le festività al quarto posto, il merito è anche del suo General Manager, Janick Steinmann. Lo abbiamo incontrato per una lunga chiacchierata. Nessuna domanda sul mercato, nessun bilancio intermedio su squadra, staff e singoli giocatori. Questa volta, abbiamo semplicemente voluto conoscerlo meglio.
Janick, tornare a Lugano da GM, 10 anni dopo aver dovuto mettere prematuramente fine, proprio in bianconero, alla tua carriera di giocatore, è stato un modo per chiudere il cerchio?
«No, è stato un modo per aprirne uno nuovo. Mi sento molto meglio oggi, come GM, rispetto all’ultima volta che sono stato qui da giocatore. Mi spiego: prima di arrivare a Lugano, nel 2014, avevo subìto tante commozioni cerebrali. Quando firmai con i bianconeri, ero determinato a riprovarci, ma non ero più il giocatore di prima. Il mio percorso da GM, mi ha invece portato a Lugano nel momento migliore. Mi sento perfettamente a mio agio, ho fiducia nei cambiamenti che stiamo apportando e nella direzione in cui stiamo andando».
Lugano contro Losanna del 17 ottobre 2015: cosa ricordi della tua ultima partita e dell’infortunio che chiuse la tua carriera?
«Il colpo che mi mise kappaò non fu particolarmente brutto: una lieve gomitata alla mascella. La testa, però, non era più in grado di assorbire nulla. Nei 5 anni precedenti, avevo subìto 5 commozioni. E prima ancora ne avevo fatte altre 4. Quella del 17 ottobre 2015 è stata una di troppo. Avevo 29 anni, ero ancora giovane. Ma mentalmente, l’idea di tornare a giocare non era più sostenibile».

Quell’ultima partita l’hai giocata al centro di Fazzini e Bertaggia, due dei tre superstiti - l’altro è Morini - di quella squadra...
«Davvero? Non me lo ricordavo. Ma sono tante le cose che non ricordo di quella serata... Molto spesso, a Lugano, ero in linea con Julian Walker. In qualche partita mi è capitato di essere schierato al centro di Linus Klasen e Freddie Pettersson. Con loro due, credo di non aver mai toccato il disco (ride, ndr.). Facevo l’ingaggio e poi andavo subito davanti alla porta».
Cinque giorni dopo quel 17 ottobre, Patrick Fischer venne esonerato. Con Doug Shedden, il Lugano raggiunse la finale della Spengler e quella dei playoff. Come fu vivere tutto ciò da fuori?
«La testa mi dava talmente tanti problemi e stavo così male, che smisi di guardare le partite. Per me contava solo rimettermi in sesto e capire cosa fare in futuro. Sapevo che la mia carriera di giocatore era finita».
Oggi hai ancora problemi dovuti alle numerose commozioni?
«Qualcosina riaffiora, ma non ho sintomi che mi impediscono di lavorare a pieno regime».
Immaginiamo che sul tema delle commozioni cerebrali, tu sia particolarmente sensibile. Soprattutto se capita a un tuo giocatore, come nel caso di Kupari.
«Assolutamente. Quando un nostro giocatore ne rimedia una, mi assicuro che abbia abbastanza tempo per riposare e recuperare al 100%, senza affrettarne il ritorno. Preferisco che resti fermo un paio di gare in più, per essere sicuro. Più tempo passa tra un colpo alla testa e l’altro, meno rischi ci sono di una recidiva a lungo termine. La storia di Kupari è triste. Spero che possa tornare presto, è troppo giovane per stare senza hockey. L’unica cosa utile, è lasciarlo tranquillo, senza stress. So come ci si sente: da fuori non si percepisce, perché la gente ti vede sorridere, ma è davvero dura».
A 29 anni hai dovuto reinventarti: una stagione da scout a Zugo, poi due come vice allenatore dell’EVZ Academy. Nel 2019, ecco la chiamata del Rapperswil.
«Il mestiere di GM mi ha sempre attratto, ma sapevo che alla mia età sarebbe stato difficile ottenere un posto simile. All’epoca, i ds avevano più di 40 anni. Sono stato fortunato: ho ricevuto una chance a 32 anni e credo di aver aperto una strada. Anche se prima di me, in realtà, c’era già stato Patrick Lengwiler, diventato GM dello Zugo nel 2004, a 26 anni».
Allenare non ti piaceva?
«Lo adoravo, ma non potevo lasciarmi sfuggire l’offerta dei Lakers. In panchina mi sono divertito tanto, prima come assistente di Stefan Hedlund, poi con Jason O’Leary. Il nostro compito era solo uno: far crescere i giovani dell’Academy affinché potessero fare il salto in National League. Non c’era pressione a livello di risultati».
Giocatore, scout, vice allenatore: è il percorso ideale per diventare un bravo direttore sportivo?
«Lo spero. Non bisogna mai smettere di imparare, perché l’hockey è in continua evoluzione. Averlo vissuto da ogni prospettiva è un bell’aiuto».
Dicci tre cose che devono esserci sul curriculum di un GM?
«Innanzitutto, devi aver giocato. Non necessariamente ai livelli più alti, ma devi capire uno spogliatoio. Poi, bisogna amare profondamente il gioco. Guardo tantissimo hockey e se mi pesasse sarei al posto sbagliato. Terzo punto: devi essere bravo a gestire le persone. Non si tratta solo della squadra e dei coach, ma anche dello staff medico e del back office. Bisogna avere la sensibilità per interagire con gente diversa, che ha compiti diversi».

Hai costruito il tuo Lugano puntando sul carattere dei giocatori. Qual è il tuo metodo per capire che persona si nasconde dietro a gol, assist e analisi video?
«Parlo molto coi giocatori, coi loro agenti, coi loro vecchi allenatori, coi loro ex compagni. Raccolgo tante informazioni, dando grande importanza alla vita fuori dall’hockey e alle famiglie. Chi ha problemi nel privato, non è performante sul ghiaccio. Nella mia visione, la persona è molto più importante del giocatore. Non stiamo infatti parlando di robot, ma di uomini. La maggior parte dei quali è molto sensibile».
Quando sei stato ingaggiato dal Lugano, Klaus Zaugg scrisse che eri un GM molto coraggioso...
«Devi essere coraggioso per fare il GM in qualsiasi club di NL. Cerchi di cambiare le cose a modo tuo, consapevole di poter fallire. Ma se hai paura di fallire, non puoi fare questo mestiere. La pressione è alta. Ad ogni partita, ci sono 3 mila tifosi che ne sanno più del coach e altri 3 mila che ne sanno più di me. Fa parte del gioco. Ed è un gioco in cui puoi vincere o perdere. Io, nel Lugano, ho visto un’enorme opportunità, un buon club, tanti bravi giocatori, un gruppo con l’età media giusta e tante chance per tornare ad avere successo. E ho anche visto la possibilità di migliorare le cose. È una grande sfida. E io amo le sfide. Era così anche a Rapperswil: mi dicevano che non avrei avuto alcuna chance di cambiare le cose, ma io credo che ci sia sempre una chance, se ti circondi di persone valide e se hai voglia di lavorare».
Alcuni giocatori con i quali sei cresciuto, tra i quali Dario Bürgler e forse Raphael Diaz, stanno per chiudere la loro avventura sui pattini. Rispetto a te, hanno giocato 10 anni in più. Senti, in compenso, di aver accumulato un vantaggio importante per un post-carriera di successo?
«In un certo senso sì, ma sono molto contento che loro – miei grandi amici – abbiano avuto una carriera così longeva e ricca di soddisfazioni. Il mio vantaggio è che alla loro età, ho già sette anni da GM nel bagagliaio. A dirla tutta, sono uno dei cinque direttori sportivi di National League con più esperienza».
Da giocatore hai vinto un solo titolo, nel 2010-11 con il Davos. Senza quello, vedresti la tua carriera con un occhio diverso?
«È bello aver vinto almeno una volta. Ero un giocatore di ruolo, feci la mia parte, ma quel trionfo porta la firma di grandi leader come Genoni, i Von Arx, Rizzi, Marha, Sykora, Taticek, Bednar. E ovviamente di Arno Del Curto. Il Davos è il club in cui ho imparato di più».

Qual è stata la lezione più importante di Del Curto?
«All’epoca, Arno non era solo un grande coach, ma anche il miglior GM del campionato. Sapeva come assemblare una squadra e ha creato una filosofia in cui si riconosceva tutta l’organizzazione. Io ho fatto tesoro di quegli insegnamenti. Come direttore sportivo, voglio assicurarmi di avere quattro linee in cui ognuno abbia il proprio ruolo, con un tempo di ghiaccio adeguato, ma anche che i top player abbiano i loro momenti chiave. Oggi il Davos porta ancora avanti la cultura creata da Del Curto».
A Lugano hai visto nascere il Patrick Fischer allenatore. Si intuiva già il potenziale o era naïf?
«Io con Fischi ho anche giocato, a Zugo. Abbiamo pure abitato nella stessa casa, quando è tornato dalla Russia. Già all’epoca, sapevo che con quella sua personalità unica, poteva diventare un coach di successo. Oltre a capire l’hockey, è bravo a trattare con le persone ed è disinvolto quando parla alla gente. Fu lui il motivo per cui mi trasferii a Lugano nel 2014. Si vedeva che aveva poca esperienza per allenare in NL, ma anche i suoi punti forti erano evidenti. È un peccato che lasci la Nazionale».
Da «Milionari» a «Hockey sotto le palme». Quanto sono duri a morire, oltre San Gottardo, i cliché sul «Grande Lugano»?
«Sono concetti che resistono su alcuni media, ma tutti sanno che oggi ci sono altri club con budget molto più elevati. A Lugano abbiamo le palme, è un fatto (ride, ndr.). Ma i giocatori sanno che l’HCL è un club solido, interessante, con potenzialità finanziarie che lo inseriscono nel gruppo di mezzo della NL. Alcuni tifosi del Rappi non hanno apprezzato il mio trasferimento a Lugano e pensano ancora che io lo abbia fatto soltanto per i soldi, ma non è così. L’ho fatto per la sfida. Di Lugano, inoltre, io amo la passione e l’atmosfera che si crea alla Cornèr Arena».
Da parte del club, stai ottenendo l’indipendenza che chiedevi?
«Al mio arrivo, sui media c’era scetticismo al riguardo, ma ho trovato professionalità e condizioni ideali. Non c’è differenze rispetto ai rapporti che avevo con CEO e CdA a Rapperswil. Parlo spesso con Marco Werder, che è il mio capo e al quale fornisco molte informazioni. Inoltre, ho riunioni regolari con Vicky Mantegazza e il CdA, che aggiorno sulla situazione. Mi danno dei feedback e mi pongono domande pertinenti, come è normale che sia, visto che è il loro club. Ma mi supportano e mi lasciano lavorare. E io sono contento».
La parte più dura è aver lasciato la famiglia in Svizzera tedesca?
«Casa nostra è a 15 minuti da Rapperswil e le mie due figlie vanno a scuola lì. Sono spesso lontano, sì, ma mia moglie mi conosce da quando giocavo e sa come vanno le cose. Mi ha sempre sostenuto. Appena posso, do qualcosa indietro alla famiglia. Ecco perché in estate sono in Ticino solo due giorni e mezzo a settimana. È un buon compromesso e in fondo Rapperswil è a due ore d’auto. Antti Ore, il nostro coach dei portieri, ha la famiglia in Finlandia ed è qui da solo. È il prezzo da pagare per un buon lavoro».
