Tyler Moy e Joey Daccord, sfida tra svizzero-americani: «Per noi sarà speciale»

Per entrambi è il primo Mondiale. E per entrambi è iniziato benissimo. Con 2 gol e 2 assist, Tyler Moy è il topscorer della selezione elvetica a Herning. Joey Daccord, dal canto suo, ha esordito con uno «shutout» nel netto successo americano contro la Danimarca. In comune, l’attaccante del Rapperswil e il portiere dei Seattle Kraken hanno pure i passaporti: quello statunitense e quello rossocrociato. La sfida di oggi pomeriggio tra Svizzera e USA, per loro, sarà molto speciale.
Il californiano di... Nebikon
«Segnare un gol a Joey Daccord sarebbe perfetto», ammette divertito Tyler Moy, emozionato all’idea di giocare contro il suo Paese d’origine su un palcoscenico così prestigioso. «Sarà un’esperienza unica e molto speciale. Da piccolo, quando guardavo le Olimpiadi e i Mondiali in televisione, tifavo sia per gli USA di papà, sia per la Svizzera di mamma. Ma sono sicuro che a questo giro tutta la famiglia sarà dalla mia parte». Moy è nato nel 1995 in California, a San Diego. Suo padre, scomparso nel 2020, era di Detroit, mentre la madre è lucernese. «Di Nebikon», tiene a precisare Tyler, approdato in National League nel 2018, ingaggiato dal Losanna. Con le sue prime due reti iridate, sabato il 29.enne ha permesso alla Svizzera di ribaltare la Danimarca: dall’1-2 al 3-2 nel giro di tre minuti. Schierato in linea con Hischier e Meier, lo sniper del Rappi ha sfruttato al meglio gli assist delle due superstar NHL: «Abbiamo reagito molto bene, sia alla sconfitta di venerdì contro la Cechia, sia al provvisorio vantaggio dei danesi in un secondo tempo complicato. Giocare al fianco di Nico e Timo è divertente, sono due attaccanti fantastici, con una grande visione di gioco e doti impressionanti nella protezione del disco. Per me non è stato difficile trasformare i loro perfetti passaggi in gol».
Una scelta facile
Se per Moy vestire la maglia rossocrociata era l’unica opzione realistica, per Joey Daccord la questione ha qualche sfumatura in più. Suo padre Brian, indimenticato portiere dell’Ambrì Piotta tra il 1986 e il 1992, è di Montréal, mentre la madre è friburghese. Nel corso degli anni si è speculato molto sulla possibilità che Joey giocasse per il Canada o per la Svizzera, ma in aprile il 28.enne ha sciolto ogni dubbio, accettando la convocazione del Team USA per la rassegna iridata di Herning. «È un onore indescrivibile. Per me è sempre stato tutto piuttosto chiaro: sono nato e cresciuto a Boston, ho vissuto negli USA per quasi tutta la mia vita e mi sento americano. Non dimenticherò mai la partita di venerdì, la prima per me con la maglia a stelle e strisce. È stato magico iniziare questa avventura con uno shutout, frutto del lavoro di squadra. Ascoltare il nostro inno a fine partita mi ha emozionato. Detto questo, adoro la Svizzera, un Paese meraviglioso in cui vengo una volta all’anno. A fine Mondiale andrò a trovare i miei parenti, appena fuori Friburgo. Indossare la maglia rossocrociata, però, non sarebbe stato possibile, nonostante il passaporto. Avrei infatti dovuto trascorrere due stagioni in Svizzera, dove io non ho mai giocato. Mi auguro che possa capitare in futuro: ovviamente intendo rimanere in NHL il più a lungo possibile, ma una volta finita la mia carriera lì, se sarò ancora in forma, sogno di giocare nel campionato svizzero, in cui anche mio padre Brian ha vissuto momenti bellissimi. Papà riceve ancora messaggi d’affetto dai vecchi tifosi dell’Ambrì, so che in Ticino non lo hanno dimenticato. Lui ha adorato quegli anni, me ne parla spesso. Ho sentito tante storie sulla sua esperienza in biancoblù e su quella al Gottéron. Se ho scelto questo ruolo, lo devo a lui. Fa l’allenatore dei portieri e i suoi consigli sono sempre molto preziosi. Ora è rimasto a Boston, ma sono sicuro che non si perderà neanche una mia partita ai Mondiali di Herning».
Joey Daccord non sa ancora se oggi (ore 16.20) sarà in pista contro la Svizzera. Schierato all’esordio con la Danimarca (5-0), ieri è rimasto in panchina nel 6-0 rifilato all’Ungheria (lo «shutout» lo ha firmato Jeremy Swayman dei Boston Bruins). «Se dovessi giocare, sarebbe molto speciale. La mia famiglia è un mix di culture e quella svizzera è certamente una componente importante del mio DNA».

Masticare la lingua
Joey Daccord parla anche lo svizzero-tedesco. «Io no», ci confessa Tyler Moy con il sorriso sdentato. «In casa, mia mamma ha sempre parlato in inglese, altrimenti mio padre non avrebbe capito nulla. Probabilmente, quando ero piccolo, nessuno immaginava che un giorno mi sarebbe stato utile conoscere anche la lingua materna (altra risata, ndr.). Da quando sono a Rapperswil e nel giro della Nazionale, ho però iniziato a studiare il tedesco, inteso come hochdeutsch, utilizzando un’applicazione. Cerco di mettere insieme i pezzi con quanto sento quotidianamente nello spogliatoio».
Dopo la vittoria per 5 a 2 contro la Danimarca, Patrick Fischer ha elogiato pubblicamente Tyler Moy per la sua fame e i suoi progressi: «Nessuno più di lui ha fatto di tutto per arrivare alla Nazionale e giocare un Mondiale. Sapeva di dover progredire a livello difensivo e nel gioco senza disco. Lavorando sodo, si è guadagnato il posto. Non è un attaccante da terza o quarta linea, specialmente quando il ritmo aumenta. Quest’anno si è aperto uno spazio nei primi due terzetti offensivi e Tyler ha colto l’occasione».
L’arrivo di Kevin Fiala cambierà sicuramente le gerarchie dell’attacco, ma Moy continuerà a godersi questo momento magico: «Sto vivendo un’esperienza unica», racconta. «Dormire in hotel e sentire i tifosi cantare in strada è incredibile, c’è una bella atmosfera in tutta la città e sono impressionato da quanti tifosi svizzeri siano venuti fin qui per sostenerci».
Forgiato da Harvard
Negli scorsi anni, Tyler è spesso stato tagliato poco prima del Mondiale. A questo giro ce l’ha fatta: «È un traguardo che inseguivo da tanto tempo. Ho lavorato duramente per fare quel passo in più che serviva per entrare nella selezione definitiva. Sono onorato, grato e incredibilmente felice. Credo di essere riuscito a giocare bene sull’arco di tutta la stagione (15 gol e 27 assist con il Rappi, ndr.), senza guardare troppo lontano e senza pensare al Mondiale con ossessione. Ho messo a frutto quella perseveranza che ho imparato da giovane, durante il periodo del college, quando ho portato avanti con successo sia la carriera sportiva, sia gli studi. I quattro anni all’Università di Harvard sono stati anni molto impegnativi, mi hanno insegnato ad essere resiliente. Ho trascorso tante notti in bianco per finire progetti e preparare gli esami, senza mai rinunciare al sogno di diventare un hockeista professionista. Ci sono riuscito, conseguendo pure una laurea in biologia evolutiva umana. Tutto ciò mi ha migliorato come persona e come giocatore».