Hockey su ghiaccio

«Vi racconto la mia Europa in biancoblù»

Tiziano Gianini, capitano di quell’Ambrì, rivive i tre successi continentali di fine anni Novanta
L’Ambrì Piotta festeggia la sua prima Continental Cup, vinta a Kosice il 29 dicembre del 1998 (Foto Keystone).
Fernando Lavezzo
30.03.2019 06:00

L’Europa chiama, l’Ambrì Piotta risponde. Qualificatisi alla prossima edizione della Champions Hockey League grazie al quinto posto ottenuto in regular season, in agosto i leventinesi torneranno a calcare quei palcoscenici internazionali che regalarono tante soddisfazioni sul finire degli anni Novanta. Quella squadra, battuta dal Lugano nella storica finale ticinese del 1999, vinse due volte la Continental Cup (1998 e 1999), la seconda competizione europea dell’epoca. Inoltre, nell’estate del 1999, conquistò pure la Supercoppa, battendo i russi del Magnitogorsk. Sfogliamo l’album dei ricordi con il capitano di allora, Tiziano Gianini.

Tiziano, nel dicembre del 1998 sei stato il primo giocatore svizzero a sollevare un trofeo continentale per club: cosa provi dopo oltre vent’anni?

«Fa ancora molto piacere, sono dei bellissimi ricordi. Personalmente li ritengo dei successi di grande prestigio. Qualcosa di eccezionale e di cui andare fieri. Infatti i tifosi biancoblù li rievocano ancora con grande orgoglio. Sono trofei che hanno fatto la storia del club leventinese. Magari in quel momento la Continental Cup non era così tanto considerata ed era forse un po’ snobbata, visto che si trattava del secondo torneo europeo dopo l’Eurolega. Ma il livello delle partecipanti, soprattutto nelle due Final Four di Kosice 1998 e Berlino 1999, era ottimo. Senza dimenticare che in Supercoppa, nelle estati del 1999 e del 2000, affrontammo due volte una compagine come il Magnitogorsk, che all’epoca sembrava di un altro pianeta. Vincemmo la prima, mentre l’anno seguente perdemmo solo all’overtime».

Partiamo dal primo successo, quello del 1998 a Kosice. Cosa ricordi?

«I giorni che precedettero la partenza furono particolarmente movimentati e delicati a causa di alcuni tristi imprevisti. Larry Huras, il nostro allenatore, fu costretto a rientrare in Nordamerica per la morte della mamma, mentre il suo vice Ted Snell fece altrettanto per stare vicino al padre malato. Fu dunque Roccia Cada ad accompagnarci in Slovacchia e a guidarci dalla transenna. John Fritsche funse da suo assistente, visto che era infortunato e non poteva giocare. La squadra non subì particolari contraccolpi, perché già da alcuni mesi si era creato un ottimo gruppo, molto ben rodato. Lo stesso gruppo che in quella straordinaria stagione avrebbe poi chiuso la regular season al primo posto e sarebbe andato fino in finale contro il Lugano».

Torniamo a Kosice.

«Le partite in Slovacchia furono toste. Soprattutto l’ultima, decisiva, con i padroni di casa. Perdemmo 2-1, ma grazie ai precedenti successi su Düsseldorf e Omsk sapevamo di poterci permettere una sconfitta con un gol di scarto, per via della differenza reti negli scontri diretti. La partita si fece subito complicata, visto che dopo 5 minuti Paul Di Pietro rimediò una penalità di partita. Fu una gara giocata in trincea. Loro ci credevano ed erano spinti da tanti tifosi. Noi avevamo degli irriducibili al seguito (200 secondo le cronache dell’epoca, ndr.), ma la curva del Kosice era impressionante. Alla fine, come detto, trionfammo pur perdendo. Ricordo molto bene anche il rientro a Malpensa, con tanti tifosi venuti ad accoglierci in aeroporto. A inizio gennaio, in occasione della prima partita casalinga con lo Zurigo, la Valascia era pienissima per festeggiare. Venne anche il consigliere federale Flavio Cotti ad omaggiarci per il successo europeo».

La squadra biancoblù immortalata all’aeroporto di Malepensa dopo la vittoria del 1998 a Kosice (Foto Keystone).
La squadra biancoblù immortalata all’aeroporto di Malepensa dopo la vittoria del 1998 a Kosice (Foto Keystone).

Quello era un Ambrì Piotta davvero fortissimo...

«Forte e anche molto unito. Una bellissima squadra e uno splendido gruppo. Stavamo andando bene in campionato e quel successo continentale fu una conseguenza. Il ciclo era già iniziato alla fine del 1997. Eravamo già messi bene. Dall’inizio del 1998, poi, fu un continuo crescendo, in un ambiente elettrizzante. Nei playoff del 1998 perdemmo le semifinali a gara-7 con lo Zugo, nel 1999 arrivammo fino in finale. In quei due o tre anni si era creato qualcosa di magico. Un clima di amicizia che coinvolgeva anche le famiglie dei giocatori. Con quei compagni ci sarà sempre un legame speciale. Con il passare del tempo ognuno ha preso la propria strada, ma capita di rivedere o risentire anche chi non vive in Ticino. Ad esempio Leif Rohlin, il nostro difensore svedese: quando passa da queste parti mi chiama e ci incontriamo».

Come detto, la Continental Cup del 1998 vi aprì le porte della Supercoppa, giocata ad Ambrì il 31 agosto del 1999 contro il vincitore dell’Eurolega. Parlaci di quel successo sul Magnitogorsk.

«Il giorno della partita, all’ora di pranzo, eravamo tutti a mangiare nella buvette della Valascia. Avevamo appena finito il riscaldamento mattutino, mentre i russi lo stavano svolgendo proprio in quel momento. Li osservavamo dai vetri del bar, impressionati dal loro livello tecnico e fisico. Io e i miei compagni ci guardammo l’uno con l’altro, come a dirci: “Questi stasera ci massacrano”. Sembravano degli alieni».

E invece...

«E invece la partita inizia e tutto si mette subito bene: 1-0 di Patrick Lebeau dopo 7 minuti, raddoppio di Ryan Gardner 90 secondi più tardi. In seguito Pauli Jaks abbassa la saracinesca e vinciamo 2-0. Disputammo un grandissimo match, meritandoci quel secondo trofeo europeo».

Tiziano Gianini, capitano di qull’Ambrì Piotta, con il trofeo vinto in Slovacchia (Foto Keystone).
Tiziano Gianini, capitano di qull’Ambrì Piotta, con il trofeo vinto in Slovacchia (Foto Keystone).

Il terzo arrivò a dicembre dello stesso anno, a Berlino. Non era più l’Ambrì Piotta di Petrov e Di Pietro, ma quello dei fratelli Stéphan e Patrick Lebeau.

«Anche quella era un’ottima squadra. In estate avevamo perso qualche elemento di valore, ma in panchina c’era sempre Larry Huras e i due Lebeau si dimostrarono ottimi stranieri. In campionato disputammo una buona regular season, uscendo poi in semifinale contro il Lugano. Berlino fu qualcosa di unico, ma rischiammo di non arrivarci mai. La fase di qualificazione, disputata tra Ambrì e Biasca, fu molto complicata. Scherzammo con il fuoco, perdendo la prima partita contro i francesi del Reims. Ricordo che i tifosi non la presero benissimo. In seguito vincemmo contro Lubiana e Feldkirch, qualificandoci grazie alla vittoria degli sloveni sui francesi, nell’ultima giornata. Insomma, con un po’ di fortuna staccammo il biglietto per le Final Four in Germania. A Berlino il rapporto con i nostri numerosi supporter al seguito fu incredibile. Il livello della competizione era di nuovo molto alto, a partire dagli Eisbären padroni di casa con i quali pareggiammo 2-2 il match d’esordio. Poi vincemmo due volte per 7 a 3 contro Kazan e Zvolen, due squadre importanti. Attorno a noi si era creato un ambiente fantastico e anche grazie a quello riportammo la coppa in Leventina».

E nell’agosto del 2000 arrivò la rivincita di Supercoppa con il Metallurg, stavolta in Russia.

«Perdemmo all’overtime, vendendo cara la pelle. Ricordo che Marois ci regalò il pareggio a 30 secondi dalla terza sirena, con Pauli Jaks richiamato in panchina. Però ai russi bastarono 30 secondi di supplementare per segnare il gol decisivo. A fine incontro il presidente del Magnitogorsk entrò nel nostro spogliatoio, scortato da due enormi guardie del corpo. Ci disse – o almeno questo è ciò che ci venne tradotto – che in fondo era giusto così: noi avevamo vinto l’anno prima in casa nostra, loro avevano vinto in casa loro. Ci guardammo negli occhi, dicendoci: “Chissà cosa sarebbe successo se fossimo venuti a vincere anche qui”».

Dall’Europa di fine anni Novanta alla Champions League della prossima stagione. Cosa significa questa competizione per l’Ambrì di Luca Cereda?

«Prima di tutto è un premio per l’ottima stagione disputata. Se lo sono pienamente meritato. Come sa bene chi vi ha già preso parte nelle ultime edizioni, economicamente la Champions non è una grande opportunità. Ma a livello di entusiasmo e di immagine, può essere una bella cosa per i tifosi e per il club. Dal punto di vista sportivo, è ovviamente un impegno in più. E non puoi prenderlo sotto gamba, se no rischi di rimediare delle figuracce. Sono sicuro che lo staff leventinese, Cereda e Duca in primis, pianificherà tutto nel dettaglio per essere pronti a giocare per vincere le partite. Molto dipenderà dagli avversari. E soprattutto cambierà la preparazione. Devi arrivare in buona forma già a fine agosto, mentre di solito puoi aspettare metà settembre. Ci sono diverse partite extra da mettere in conto, oltre ai viaggi in aereo. Sono tante piccole cose che rubano un po’ di quella tranquillità e di quella routine che solitamente si ha durante un campo d’allenamento estivo. Nel complesso, però, credo che all’Ambrì questa esperienza possa fare bene. Con la crescita dei giovani, la rosa è assai profonda. Lo si è già visto quest’anno: in caso di necessità c’è sempre stato qualcuno pronto ad entrare e farsi valere».