Football americano

L'incidente occorso a Hamlin, un caso che potrebbe fare scuola

L’arresto cardiaco che ha colpito il giocatore dei Buffalo Bills ha visto la NFL reagire in maniera atipica – Massimo Lopes Pegna: «Il rinvio del match evidenzia un cambio di cultura»
Come la Danimarca con Eriksen a Euro2020, anche la squadra di New York si è stretta attorno a Hamlin, proteggendone la privacy durante i soccorsi. © AP Photo/Joshua Bickel
Nicola Martinetti
04.01.2023 06:00

Lunedì notte, nel «Monday Night» della NFL, si è sfiorato il dramma. Nel primo quarto della sfida tra Cincinnati Bengals e Buffalo Bills, il safety della franchigia di New York Damar Hamlin è infatti crollato a terra. Lo ha fatto a causa di un arresto cardiaco, rievocando il malore che nell’estate del 2021 aveva colpito il calciatore danese Christian Eriksen, nell’ambito dell’Europeo itinerante. «La scena, seppur differente nei contenuti, è in effetti stata simile - rileva l’ex corrispondente della Gazzetta dello Sport Massimo Lopes Pegna, per oltre trent’anni attivo negli Stati Uniti -. Con la differenza che in questo caso a scatenare l’evento è stato un colpo che il 24.enne ha incassato all’altezza dello sterno». Già, una botta. All’apparenza nemmeno troppo seria. Come se ne vedono tante, anzi tantissime nel football americano. Eppure, questa volta, rivelatasi quasi letale. Con il giocatore che - ora fuori pericolo, stando agli aggiornamenti più recenti - rimane ricoverato in gravi condizioni. «La sua “fortuna”, doverosamente fra mille virgolette, è stata quella di trovarsi lì sul campo - prosegue Lopes Pegna -. Proprio come per Eriksen. In qualsiasi altro momento e luogo, un malore in seguito a un trauma simile avrebbe potuto ucciderlo senza che vi fosse il tempo necessario per intervenire. Qui, invece, lo staff medico era già presente e ha potuto attivarsi tempestivamente».

L’incubo della CTE

L’incidente, va da sé, ha scatenato una lunga serie di reazioni. Da quelle più empatiche e immediate, con migliaia di auguri di pronta guarigione piovuti da ogni dove, a quelle più riflessive. Con la natura violenta del football americano, in questo secondo caso, quale spunto più ricorrente. «Quasi un paradosso, considerando che questo incidente ha in fondo poco a che fare con il lato più brutale di questo sport - analizza l’ex inviato della Gazzetta -. Parliamo infatti di un contrasto normalissimo, poco violento e poco spettacolare. Il quale fortuitamente, in questo caso, ha però avuto risvolti molto negativi». Della serie:l’unica carica che non doveva fare male, ne ha arrecato in maniera sproporzionata. «Sì, qualcosa del genere. Del resto è vero che il football americano è e rimane uno sport molto pericoloso, i cui effetti nefasti sulla salute degli atleti non sempre sono visibili immediatamente. Anni fa ho avuto l’occasione di intervistare Ann McKee, neuropatologa e direttrice dell’istituto di ricerca della Boston University, che studia proprio queste conseguenze sui cervelli di giocatori nel frattempo deceduti, su consenso - e talvolta richiesta - dei famigliari. I risultati che mi ha esposto erano sbalorditivi e raccapriccianti allo stesso tempo. Molti cervelli, ad esempio, mostravano segni evidenti di encefalopatia traumatica cronica (CTE). Una malattia causata dai danni derivanti dai costanti traumi accusati giocando a football americano».

Un parziale cambio di mentalità

Anche grazie a studi come questi, che in passato hanno spinto diversi ex giocatori a fare causa alla NFL per rifarsi dei danni subiti, la massima lega del football americano ha nel frattempo provato ad apportare dei correttivi. Andando ad esempio a inasprire le regole di gioco, i protocolli in caso di sospetta commozione cerebrale e investendo nella produzione di un equipaggiamento protettivo - caschetto in primis - più efficace. Tentativi nobili, che però presentano ancora delle falle sistemiche, anche derivanti da una mentalità che fatica a cambiare. Come è ad esempio stato il caso - ancora questa stagione - del quarterback dei Miami Dolphins «Tua» Tagovailoa, rimandato in campo dopo una dura carica perché ufficialmente dichiarato abile al gioco, nonostante avesse in effetti sofferto di una commozione. Un errore di valutazione difficile da imputare ai medici, siccome i protocolli erano comunque stati seguiti. «Sono casi delicati - conferma Lopes Pegna -. E parlando di mentalità, in generale, è difficile credere che il football possa un giorno diventare meno fisico, meno violento. Perché se così fosse, di fatto muterebbe la sua natura. Credo però che la disciplina stia muovendo dei passi nella giusta direzione, come a suo tempo aveva ad esempio fatto l’hockey, per garantire maggiore sicurezza ai suoi interpreti. Sì, lì effettivamente sto vedendo un graduale cambio di mentalità. Lo sfortunato episodio di Hamlin, in fondo, lo evidenzia. In passato la NFL avrebbe probabilmente atteso che il giocatore venisse soccorso, e poi avrebbe spinto affinché il match ripartisse subito. Una volontà che probabilmente avrebbero condiviso pure le due squadre coinvolte. Invece lunedì notte gli allenatori, per primi, hanno deciso di non riprendere il match. Una scelta rapida, approvata in fretta - e in maniera un po’ atipica, appunto - anche dalla lega. Questo fa onore a tutte le parti in causa. Significa che finalmente il valore dell’individuo, del giocatore, viene posto prima del business. Lo trovo un importante passo verso un cambiamento di cultura. E penso che quello di Hamlin, in questo senso, potrebbe rivelarsi un caso simbolico. Sì, potrebbe fare scuola».

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