«L’NBA e la sua bolla hanno vinto come LeBron»

Hanno vinto i Los Angeles Lakers. Ha vinto LeBron James. Ma ha vinto anche l’intera NBA, capace di portare a termine la stagione nella bolla di Orlando: quasi 100 giorni di isolamento dal resto del mondo, 172 partite, nessun contagio. Ne parliamo con Davide Chinellato, giornalista della Gazzetta dello Sport.
Signor Chinellato, come scriveva ieri sulla Gazzetta, si è riaperto il dibattito sul più grande di sempre: Michael Jordan o LeBron James? Quali sono gli argomenti a favore di uno e dell’altro?
«Per Jordan partirei dal percorso netto nelle finali: 6 vittorie in 6 partecipazioni con i Bulls. Inoltre, è stato la prima superstar capace di uscire dai confini del campo, icona e volto dell’espansione globale della NBA negli anni ’90. Jordan ha ispirato tutte le generazioni successive. Per non parlare del suo talento straordinario e della sua determinazione».
Che dire invece di LeBron James, al suo quarto titolo dopo i due con Miami e quello con Cleveland?
«Lui di finali ne ha vinte 4 e perse 6, ma arrivarci 9 volte negli ultimi 10 anni è stato eccezionale. Soprattutto a quasi 36 anni. LeBron ha concluso la sua 17. stagione in NBA e non dà segni di cedimento o rallentamento. Ogni anno è migliorato in qualcosa. È il giocatore che più impatta sugli equilibri della lega, è capace da solo di cambiare le sorti di una franchigia. O di un’intera città: nel 2014, quando tornò ai Cavs, tutta Cleveland rifiorì dopo anni di declino. Fuori dal campo LeBron ha raggiunto, seppur in modo diverso, lo stesso status di Jordan. C’è addirittura chi lo vorrebbe candidato alla presidenza degli USA».
Chi è il più grande secondo lei?
«Per un paragone completo, bisognerebbe aspettare che LeBron chiuda la carriera. Oggi, secondo me, non è ancora ai livelli di Jordan. Gli manca ancora qualcosina, ma è l’unico che può reggere la conversazione. Se vincesse un altro titolo da protagonista, magari battendo il record di punti in regular season di Kareem Abdul-Jabbar (34.241 contro 38.387, ndr.), sarebbe difficile non metterlo al primo posto».
Che playoff sono stati rispetto a quelli tradizionali?
«Il livello è stato alto. L’assenza dei viaggi ha tolto un fattore di stress e fatica, permettendo alle Finals di andare in scena ogni due giorni. Il campo neutro della bolla ha invece reso meno importante la regular season, pensando in particolare alle gare-7. Faccio fatica ad immaginare i Toronto Raptors perdere gara-7 in casa loro contro Boston. Altra considerazione: per i giocatori di ruolo, quelli che più di tutti sentono la differenza tra casa e trasferta, è stato più facile. Giocare sempre nella stessa arena, con gli stessi canestri, ha permesso loro di trovare un migliore equilibrio e di evitare gli alti e bassi del passato. Per le superstar, invece, non c’è stata grande differenza. Un LeBron dominante lo avremmo visto comunque. Alla fine ha vinto la squadra più meritevole. I Lakers erano tra i favoriti già prima della pandemia, insieme ai Los Angeles Clippers e ai Milwaukee Bucks. Rispetto alle squadre rivali, sono stati più bravi a fare gruppo e ad adattarsi alla situazione».
È stato un trionfo nel segno di Kobe Bryant, la leggenda dei Lakers scomparsa lo scorso 26 gennaio. Si è percepita la presenza di questo sesto uomo in campo?
«Il ricordo di Kobe e di sua figlia Gianna, morta con lui, sono stati il leitmotiv dei Lakers per tutto il 2020. Hanno costantemente cercato di onorare il loro campione, traendone una motivazione supplementare. Non dimentichiamo che nella prima parte della stagione Kobe era una presenza fissa nella vita dei Lakers: prezioso consigliere del general manager Robert Pelinka, era sempre pronto a farsi vedere allo Staples Center. Nella bolla di Orlando i giocatori rompevano le mischie urlando ‘‘1, 2 ,3, Mamba!’’, riferendosi al suo soprannome. Hanno inoltre indossato la maglia nera, disegnata dallo stesso Bryant».
Si è parlato di una vittoria dell’intera NBA, per come ha saputo portare a termine la stagione.
«Il numero da guardare è quello 0 alla voce ‘‘contagi’’. Soprattutto se lo si paragona a quanto succede in altri sport, a partire dal calcio italiano. Mettendo in piedi la bolla di Disney World, la NBA ha fatto una cosa da NBA. Cioè da miglior lega sportiva del mondo, capace di organizzare nei minimi dettagli una cosa che il suo stesso commissioner Adam Silver riteneva impossibile per il numero di partite, di persone coinvolte, di protocolli sanitari e regole. Invece, con il grande impegno di tutti, ci sono riusciti. I giocatori hanno accettato tanti sacrifici, trascorrendo quasi cento giorni isolati dal mondo, privati di alcune libertà, costretti a seguire regole ferree e controlli quotidiani. Solo nell’ultimo mese sono stati raggiunti dalle famiglie».
Questo modello, applicato anche dalla NHL, sarebbe ripetibile per la stessa NBA? E sarebbe replicabile altrove, magari nel calcio?
«Come si è visto, una vera bolla può funzionare per delle Final Eight di Champions ed Europa League. Ma non per 38 giornate di Serie A. Bisogna semmai trovare il modo di adattare quello che la NBA ha insegnato – controlli quotidiani, rispetto delle regole – alle peculiarità dei vari sport. Per il futuro della stessa NBA, nessuno si augura di dover ripetere l’esperienza. Sarebbe solo l’ultima ratio, ma l’obiettivo è quello di ripartire nelle varie città, possibilmente con un minimo di pubblico. Da quanto succede nelle arene dipende il 40% dei ricavi della NBA».
Sono stati anche i playoff del «Black Lives Matter», tra proteste, scioperi e gesti simbolici in campo. Che bilancio trarne?
«La NBA ha trovato un compromesso inevitabile per come era la situazione tra maggio e giugno, quando la bolla si stava definendo e molti giocatori erano in strada a marciare con i protestanti. I messaggi sociali sono stati una richiesta dei cestisti, mediati però dalla lega. Gli atleti, soprattutto nella fase iniziale, sono riusciti a far passare bene il concetto che il basket, per una volta, finiva in secondo piano. È però presto per valutarne il successo e l’impatto sociale. I cambiamenti che i giocatori hanno richiesto non avvengono dall’oggi al domani. Vedere le arene della NBA utilizzate come seggi elettorali è un passo in questa direzione, ma gli USA restano profondamente divisi».