Beat Schenker, meccanico d’altri tempi rifugiatosi nella memoria
Pochi ricordano gli anni ‘60, quando le monoposto furono rivoluzionate dal genio di Colin Chapman che spostò il motore dietro il pilota ideando un telaio e una diversa struttura della macchina. Allora con pochi debiti, niente soldi e molte speranze si poteva comprare una Lotus Formula Junior con motore Ford Anglia modificato e un cambio VW di serie, magari d’occasione come fece Silvio Moser acquistandola da un altro spiantato, tale Jo Siffert. Poi vennero le F3 e le F2 e un giorno, a Lugano, comparve un meccanico di moto. Beat Schenker. Divenne meccanico da corsa di Silvio Moser. Un meccanico tuttofare, perfezionista ingegnoso, caparbio e instancabile. Dopo giorni e notti passati lavorando, tanto, e dormendo, poco, nel box di una pista, percorreva ancora centinaia di chilometri con la macchina da corsa trainata su un rimorchio per raggiungere il circuito successivo.
Con l’avvento della F2 i costi schizzarono e le nostre difficoltà aumentarono, costringendoci a riparazioni dell’ultimo momento per poter entrare in pista appena in tempo. La fiducia di Beat nelle sue capacità aveva del miracoloso; a volte per me rasentò l’incoscienza. Ricordo un lenzuolo bianco disteso su un prato del circuito di Hockenheim, con sparpagliati in ordine alberi a camme e centinaia di altri pezzi delicati e misteriosi da ricomporre in condizioni di precaria pulizia. Con il tempo che passava inesorabile. Ma Beat, con competenza e frenetica ostinazione, ci riuscì.
Venne anche il tempo della pazza avventura della Bellasi in Formula 1. Nell’officina di Novara, con Guglielmo che progettava un telaio avveniristico, Beat che criticava e un solo meccanico, realizzarono una macchina bellissima in cui sistemarono un motore usato. Per la prima corsa, in Olanda, partendo senza neppure sapere se funzionasse, tutto fu pronto cinque minuti dopo la mezzanotte. Negli anni ’70 i grandi team ufficiali di Formula 1 contavano su almeno un ingegnere, un manager e un massimo di otto meccanici. La nostra squadra ne aveva solo due – Beat, il capo, e Renzo, detto «Dovina» perché diceva continuamente indovina – ma un pilota velocissimo e fine collaudatore. La soddisfazione di partecipare a gare del Mondiale non fu ripagata dai risultati.
Poi, nel 1974, la tragedia di Monza. Un incidente a un incolpevole Silvio, proiettato verso la vittoria della 1000 km, ne provocò la morte. Schenker si rinchiuse nel dolore coltivando la memoria del suo pilota. Realizzò un sito web nel quale descrisse in quella sua lingua tutta sua le vicende al fianco di Moser, poi tradotte nel libro che gli dedicai cinquant’anni dopo la vittoria della Temporada Argentina del 1964. A una delle ultime «esposauto» ci fu possibile mostrare la Bellasi F1 trovata nel museo di Donington e acquistata da Rosy Moser. Beat diede gelosamente inizio a un restauro che però non volle mai terminare, rifiutandosi di accendere il motore forse per non interrompere l’incantesimo della memoria nel quale si era rifugiato. Beat Schenker, meccanico d’altri tempi dal carattere burbero che svelava l’intima sua gentilezza con quell’affettuoso sorriso che gli abiatici di Silvio strappavano dalla sua sofferta, malcelata solitudine.