Dalla solitudine alle dimissioni: la parabola forzata di Mattia Binotto

Capolinea. Che la Ferrari abbia concluso al secondo posto sia il Mondiale piloti sia quello costruttori, ottenendo il miglior risultato da quattro anni a questa parte, è un fatto del tutto marginale. Mattia Binotto, che già non appartiene più alla Ferrari, paga colpe non legate a quanto è avvenuto in pista ma a qualcos’altro che sfugge a lui, a noi, a tutti. Solo il presidente John Elkann conosce i motivi che lo hanno spinto a mettere ai margini di Maranello il responsabile della gestione sportiva, cui era stato affidato un incarico che doveva scadere alla fine del 2023, presumibilmente con la conquista del titolo mondiale. Ma Elkann non ha dato il tempo a Binotto di finalizzare un’opera portata avanti pazientemente, senza eccessi di budget, con una struttura prevalentemente italiana che si era creato dopo che il direttore tecnico James Allison e i rimasugli delle eredità gestionali legate a Todt e Schumacher avevano preso altre strade. A Binotto non è stato concesso di ingaggiare tutti i migliori tecnici che c’erano sul mercato, come invece era accaduto con Todt, per cui è ripartito da zero con volti nuovi, giovani, pieni di entusiasmo ma non di esperienza. Ha avuto ragione alla distanza, però le tempistiche che aveva in mente Elkann non hanno combaciato con le sue. E si è arrivati all’addio di Binotto al quale Elkann, negli ultimi due anni, ha rivolto pochissimo la parola, lasciandolo in un limbo decisionale che è pesato sui risultati. Un conto era tornare a casa dai gran premi confrontandosi con Ferrari, Montezemolo o Marchionne, un altro conto è stato rientrare da trasferte vittoriose o perdenti, senza avere nessuno con cui rapportarsi, con cui condividere problemi o gioie, perché è con il dibattito che si esce nei momenti di crisi. Tra Elkann e Binotto si è creato un silenzio assordante e destabilizzante. Non si poteva andare avanti così. Binotto ha deciso di dire basta prima che lo facesse Elkann: dettagli di un rapporto mai felice, mai gioioso, mai aperto.
Ci fosse stato Marchionne
A questo punto è giusto chiedersi che cosa volesse Elkann da Binotto e che cosa possa avergli rimproverato. E qui diventa necessario fare un breve rewind andando a ciò che successe all’inizio del 2020, quando proprio nel momento in cui stava per cominciare la stagione, alla Ferrari venne impedito di continuare a utilizzare il potente motore con cui aveva chiuso la stagione precedente. Un propulsore di cui la FIA, nelle numerose verifiche, non aveva mai accertato l’irregolarità ma che – in un alone di mistero e di patti mai rivelati – alla fine è stato bandito, costando alla Ferrari il sacrificio di due stagioni, in quanto intorno a quella power unit era stata costruita una macchina che improvvisamente si è trovata senza potenza e senza la stessa distribuzione dei pesi. Il tutto mentre la Mercedes volava e la Red Bull stava risalendo la corrente. Ci fosse stato Marchionne, avrebbe minacciato di ritirare le macchine dal Mondiale e tutto sarebbe rientrato, con la contropartita di risultati per Leclerc e Sainz. Ma Elkann non ha voluto il braccio di ferro con la FIA, e Binotto si è trovato scoperto. Poi quest’anno, finalmente, la Ferrari si è presentata al via con una monoposto di altissimo livello, la F1-75, protagonista della prima parte del campionato ma, alla lunga, costretta a soccombere alla Red Bull: ci sono state vittorie (quattro) e pole position (11), però sono arrivate anche – insieme a incidenti dei piloti – errori clamorosi al box, tipo quello del Brasile, dove Leclerc è stato mandato in pista, in qualifica, con gomme da quasi-bagnato quando invece la pioggia era di là da venire. Sviste imperdonabili per i piloti mentre Binotto ha difeso i suoi uomini sapendo che nell’inverno – quello che non lo vedrà più alla sua scrivania – avrebbe effettuato i cambiamenti necessari di ruoli e di uomini. Modifiche alla struttura, con la certezza di una macchina che nel 2023 sarebbe stata competitiva e che invece sarà gestita da altri.
La stagione che verrà
«Non ho da rimproverarmi nulla», ha ripetuto più volte Binotto, figlio di un taxista emigrato a Losanna, persona di poche parole e idee chiare, che ha sempre affrontato a viso aperto le critiche. Mai una accusa ai piloti, ai meccanici, ai suoi ingegneri, una immersione totale in un lavoro che include mansioni manageriali, gestione di budget rilevanti, con una struttura di 1.200 persone che è enorme, quando invece chi critica immagina che il reparto corse della Ferrari sia un capannone con una trentina di volonterosi meccanici. Binotto ha saltato ferie, compleanni di moglie e figli, ha sacrificato vacanze, ha dato tutto proteggendo tutti. Ma alla fine Leclerc che gli si è opposto perché reclamava uno status di prima guida che Binotto non gli ha concesso e che è stato un elemento che alla fine ha inciso nell’atteggiamento di Elkann, il quale pensava forse a una Ferrari già pronta al titolo. Sbagliava: la Ferrari da Mondiale sarà quella del 2023. Spetta però a chi la gestirà – il candidato è Frederic Vasseur, che in Sauber non ha compiuto miracoli – il compito di non rovinarla, nel rispetto di chi l’ha concepita. E non è affatto detto che sarà facile.