L'intervista

«Il mio sogno? Fare da mentore al prossimo pilota ticinese»

È l’unico pilota a tenere alta la bandiera ticinese nel mondo dell’autocross in Svizzera: meccanico di professione, ha maturato la passione per i motori grazie a suo padre — Roby Ginevri ci racconta la sua storia
© Ti-Press / Francesca Agosta
Maddalena Buila
28.09.2022 06:00

È l’unico pilota a tenere alta la bandiera ticinese nel mondo dell’autocross in Svizzera. Ma non fa solo presenza. Ha vinto due volte il campionato nazionale, arrivando secondo quest’anno. È meccanico di professione e ha maturato la passione per i motori grazie a suo padre. Roby Ginevri ci racconta la sua storia.

Roby, che effetto le fa essere da sempre l’unico ticinese a praticare questa disciplina in Svizzera?
«La verità è che mi piacerebbe molto avere un compagno di corse. Questo sport è strepitoso. Peccato sia rappresentato da un solo pilota ticinese. Inizialmente, in realtà, nemmeno sapevo esistesse questa disciplina in Svizzera. Mio papà gareggiava, ma in Italia. Quando ho iniziato a correre su suolo elvetico era il 2013. Sin da quel giorno sono sempre stato l’unico rappresentante del nostro cantone. Fatta eccezione per mio fratello, che ha gareggiato con me per un breve periodo».

Ciononostante, lei difende i colori ticinesi egregiamente. Ha vinto due volte il campionato svizzero, nel 2017 e nel 2019, chiudendo secondo quest’anno.
«Esatto. Nel 2018 avevo preso la decisione di smettere. La Federazione svizzera di autocross non era però contenta di perdere l’unico italofono al via. Dunque mi ha offerto un posto in qualità di verificatore tecnico pre-gara, date anche le mie competenze meccaniche. Come rifiutare? Sono dunque rimasto in quest’ambiente. Nel 2019 ho ricomprato una vettura e ho vinto il titolo nazionale senza accorgermene. Puntavo al campionato Tre nazioni, correndo in Svizzera, Germania e Francia. Così facendo, ho naturalmente preso parte a tutte le gare su suolo elvetico, ottenendo ottimi risultati e portandomi a casa la vittoria. Quest’anno puntavo solo a divertirmi e sono giunto secondo. Chissà se mi fossi impegnato un pelino di più… (ride, n.d.r.)».

Quanto l’ha aiutata la sua professione in pista?
«Parecchio. Ho avuto più volte modo di accorgermi di avere una marcia in più rispetto ai piloti che sono entrati nel mondo dei motori “solo” con la passione. Se apporto una modifica alla vettura, sono il primo a capire se ha funzionato o meno. Potendo, in prima persona, agire di conseguenza».

L’idea di smettere le è già balenata in testa, e poi non si è però concretizzata. Ha assunto un altro ruolo e ha ricominciato a gareggiare. Cosa ha in mente per il prossimo futuro?
«Mi piacerebbe creare un movimento di autocross in Ticino. La ritengo una realtà davvero splendida. L’ambiente è decisamente familiare. Il mio sogno al momento è però quello di poter assistere all’entrata in scena di un altro pilota ticinese, potendogli fornire il mio aiuto».

Qual è il ricordo più bello che serba della sua carriera in pista?
«Ce ne sono tanti. Forse quello più speciale e prezioso rimane il titolo conquistato nel 2017. Al di là però del successo ottenuto, c’è stato un momento che mi è entrato in modo particolare nel cuore. Mio papà, colui che mi ha trasmesso la passione per i motori, purtroppo non c’è più. Ha avuto un incidente durante una gara, quando io avevo sedici anni. Il giorno dell’ultima corsa del campionato 2017, seppur avessi un grande vantaggio in classifica, ero pronto a dare il meglio di me. Improvvisamente, quando tutti i piloti erano ormai già pronti sulla linea di partenza, ci è stato chiesto di spegnere i motori. Fatto piuttosto bizzarro. La pista andava infatti bagnata. Durante l’attesa, gli organizzatori hanno collegato una stazione radio agli altoparlanti, da cui hanno risuonano i Righeira. Proprio la canzone che ascoltavo sempre con mio papà da bambino. Quella che mi ricorda lui. Quante probabilità c’erano che una radio francofona passasse la canzone italiana che mi ricorda mio padre prima dell’inizio della gara che mi avrebbe regalato il titolo svizzero? Ho capito che lui era lì con me, e mi è venuta la pelle d’oca. Per me è stata un’ulteriore conferma che, sì, gareggio con una monoposto, ma non sono mai solo».