Quando in Brasile, 15 anni fa, la Red Bull zittiva il paddock

Il grande libro della Formula 1 è costellato di date storiche. Clamorose rimonte, vittorie insperate, tremendi incidenti oppure ancora terribili decessi. Ci sono giorni che vengono ricordati per aver chiuso un’epoca, mentre altri sono cerchiati in rosso sul calendario per averne aperte di nuove. Oggi, ricorre uno di questi. Una data che ha cambiato il mondo del massimo campionato delle quattro ruote. Per lo meno quello dell’era moderna. Il 7 novembre del 2010 la Red Bull festeggiava la conquista del suo primo Mondiale costruttori. Oggi come allora si correva il fine settimana del Brasile, a Interlagos. A sud di Rio de Janeiro, esattamente 15 anni fa, una scuderia nata dal marketing di una bevanda energetica ebbe la meglio su squadre blasonatissime come la Ferrari e la McLaren. Fu una sorta di passaggio di testimone, una specie di rivoluzione. C’è chi dice in bene, c’è chi dice in male. Questione di punti di vista e preferenze. Sta di fatto che da lì in avanti la Formula 1 non sarebbe più stata la stessa.
La barzelletta del Circus
Il debutto della Red Bull nel Circus risale al 2005, ma le radici di questo salto nel mondo delle quattro ruote vanno cercate qualche anno prima. Il brand austriaco, fondato da Dietrich Mateschitz, aveva iniziato a sentire il profumo della F1 già negli anni ’90, come sponsor per il marchio elvetico Sauber. Il passo definitivo coincise con il 15 novembre 2004, giorno in cui l’imprenditore austriaco acquistò dal gruppo Ford la Jaguar Racing, un team in difficoltà, erede della Stewart Grand Prix. La trattativa era stata conclusa con il prezzo simbolico di 1 dollaro, ma a condizione che Mateschitz si impegnasse a investire una somma significativa nei tre anni a venire. Fu così che la Red Bull entrò nell’esclusivo club dei grandi costruttori di F1.
L’idea ben presto diventò un vero progetto, che prese forma a Milton Keynes, città del sud-est dell’Inghilterra, nella contea di Buckinghamshire. Per dirigere i lavori, venne scelto un ambizioso 31.enne, ex pilota di Formula 3000. Il suo nome era Christian Horner. Poco dopo, si aggiunse anche Adrian Newey, il genio dell’aerodinamica che aveva portato tanta gioia in casa Williams e McLaren. I protagonisti del circuito guardavano alla nuova scuderia con curiosità, ma soprattutto con ironia. L’idea che una lattina di energy drink potesse dare del filo da torcere a mostri sacri come la Ferrari o la McLaren sembrava piuttosto una strategia di marketing che un progetto tecnico. Nel 2023, lo stesso ingegnere inglese, strappato al team di Woking per passare a Milton Keynes, avrebbe commentato così i primi momenti in cui la Red Bull fece capolino nel Circus da primattrice: «Nel 2005 la squadra era ancora la barzelletta del paddock. Venivano visti come il team delle feste. Nessuno li prendeva sul serio. Ma sotto c’era chiaramente la voglia di fare qualcosa di concreto».
I primi buoni segnali
Le prime stagioni della Red Bull Racing furono di rodaggio. Nel 2005, la squadra di Horner chiuse al settimo posto tra i costruttori, con 34 punti raggranellati dal duo di piloti David Coulthard e Christian Klien. Una coppia pensata per accostare l’esperienza dello scozzese, in arrivo anche lui dalla McLaren, alla frizzantezza del giovane austriaco, proveniente dal programma junior Red Bull. L’idea di creare un vivaio dove far crescere i gioiellini del team prese forma l’anno successivo, con la creazione della Toro Rosso, l’attuale Racing Bulls.
La monoposto austriaca avrebbe montato motori Cosworth per tre anni, per poi passare a quelli Ferrari nel 2008 e infine a quelli Renault dal 2009. E fu proprio a partire da quell’anno che il telaio della Red Bull iniziò a presentare i primi accorgimenti rivoluzionari. La RB5 fu la prima a riproporre il concetto di pull-rod anteriore dopo anni di predominanza dei push-rod. Questo consentiva di abbassare il baricentro, migliorando la distribuzione dei pesi e aumentando l’efficienza aerodinamica nella zona del muso e della pancia. Newey trasformò il telaio da “contenitore” per pilota e meccanica a un mezzo per interagire direttamente con i flussi aerodinamici. Quell’anno Sebastian Vettel, che correva al fianco dell’australiano Mark Webber, salì alla ribalta. La sua scuderia vinse sei gare e si piazzò seconda nel Mondiale costruttori.
L’anno della consacrazione
L’anno dopo, arrivò la tanto attesa consacrazione. La RB6 era il prodotto perfetto di Adrian Newey. La monoposto era dotata di una gestione aerodinamica innovativa e terribilmente efficace. L’ala anteriore era estremamente complessa perché disegnata per ottimizzare i flussi verso i lati e il fondo della vettura. Vettura capace di sfruttare pienamente il diffusore a doppia altezza introdotto un anno prima, massimizzando l’effetto Venturi e migliorando di conseguenza la resistenza all’avanzamento. Le già citate sospensioni pull-rod anteriori fecero infine il resto.
Nonostante l’ottimizzazione dell’ultima creatura della Red Bull, il campionato del 2010 si rivelò uno dei più incerti. La stagione si concluse con ben cinque piloti, di tre squadre diverse, in lotta per il titolo. Vettel e Webber per la Red Bull, Alonso per la Ferrari e Hamilton e Button per la McLaren. La squadra di Milton Keynes, tuttavia, si dimostrò la più costante e priva di problemi di affidabilità. Su 19 gare in calendario, conquistò 15 pole position e 9 vittorie. Il titolo era nell’aria. E si verificò quel fatidico 7 novembre 2010. In Brasile, Vettel e Webber firmarono una doppietta che consegnò alla Red Bull il Mondiale costruttori con una gara d’anticipo. Il team austriaco chiuse la stagione con 498 punti, davanti ai 454 della McLaren e ai 396 della Ferrari.
Horner, il più giovane team principal a vincere il trofeo a 36 anni e 213 giorni - record che resiste ancora oggi -, condensò l’emozione di quel successo in queste parole: «È un giorno incredibile per noi. In sei anni questa squadra è passata da un team che nessuno prendeva sul serio - che tutti consideravano essere arrivato qui solo per fare festa - a diventare campione del mondo Costruttori 2010 di Formula 1. Abbiamo sorpassato squadre con molta più esperienza e tradizione di noi». Da scuderia schernita perché nata da un brand di bevande energetiche, la Red Bull era diventata la stella più brillante del paddock.
Il dominio, il calo e Max
Una settimana dopo, ad Abu Dhabi, Vettel completò l’opera, vincendo anche il titolo piloti e diventando il più giovane campione del mondo della storia, a soli 23 anni e 134 giorni.
Da quel 7 novembre le cose cambiarono definitivamente. Si entrò in una nuova era della F1 moderna. Con la Red Bull che di fatto aprì un ciclo dominante. Tra il 2010 e il 2013, la scuderia vinse quattro titoli costruttori e quattro piloti consecutivi, tutti con Sebastian Vettel. La RB7, RB8 e RB9 consolidarono gli avanzamenti tecnici introdotti nel 2010, portandoli a livelli di perfezione quasi maniacale. Nel 2013 Vettel chiuse con nove vittorie consecutive, un record che resistette per quasi dieci anni.
Il cambio di regolamento del 2014, con l’introduzione dei motori ibridi, riportò il dominio nelle mani della Mercedes. Per la Red Bull iniziò un periodo più complesso, ma lo scheletro del team restò intatto. Nel 2016 arrivò un diciottenne olandese di nome Max Verstappen, che vinse la sua prima gara con il team principale a Barcellona, al debutto. Il talento era evidente, e la squadra ricostruì intorno a lui il proprio futuro. Il resto è storia recente.
