L'incidente

Se Dettwiler paga il prezzo di un pazzo giro di Rueda

Le condizioni del pilota svizzero rimangono critiche - Tresoldi: «Durante il percorso di allineamento bisogna stare attenti. Lo spagnolo ha parecchie colpe»
Il pilota svizzero ha subìto una rimozione della milza e rimane in terapia intensiva in condizioni critiche. © Epa/Fazry Ismail
Maddalena Buila
28.10.2025 22:30

Il mondo del motociclismo, in particolare quello svizzero, sta vivendo ore con il fiato sospeso. Le condizioni di Noah Dettwiler parrebbero stabili, ma purtroppo sempre critiche. Il pilota di Moto3 rossocrociato sta ancora lottando tra la vita e la morte. Tremendo il colpo che gli ha inflitto Rueda. Anche se, in presa diretta, a molti neppure era sembrato un tocco così forte. «Neanche io ho capito bene cosa gli sia successo - racconta l’ex pilota ticinese Marco Tresoldi -. Gli incidenti gravi a cui siamo abituati sono quelli in cui il conducente cade a terra, venendo in seguito colpito da una moto che sopraggiunge a tutta velocità. Pure essere catapultati in aria e rotolare sull’asfalto fanno parte dell’iter classico di una caduta. Ecco perché non mi era sembrato un volo così tremendo. E invece sono rimasto colpito dalla gravità del bollettino medico. Deve aver ricevuto una botta fortissima».

Più spazio alla MotoGP

In queste ore si è riacceso il dibattito sulla decisione, risalente a un paio di anni fa, di eliminare, per Moto2 e Moto3, il warm up. Ovvero la finestra mattutina di qualche minuto per testare le proprie vetture. Il motivo della sua abolizione? Favorire il giro dei piloti MotoGP su una sorta di bus che li scorrazza in mezzo al pubblico mentre lanciano magliette e cappellini. Così facendo, si toglie di fatto la possibilità ai conducenti più giovani, e di riflesso meno esperti, di prendere le misure con il mezzo il giorno stesso della corsa. «Ma io non credo che l’eliminazione del warm up influisca sugli incidenti - analizza Tresoldi -. La pericolosità nel giro di allineamento (ovvero il warm up lap che precede l’inizio della corsa, ndr) c’è sempre stata. Certo, se la moto ha un guasto è meglio che si rompa durante il warm up, ma è questione di fortuna. A volte può capitare che qualcosa si inceppi proprio durante il percorso di ricognizione. Sta di fatto che è un giro pericoloso. Non ci sono regole e ogni pilota fa un po’ quello che vuole. Serve più coordinazione e chiarezza nei protocolli. C’è chi rallenta e chi invece accelera. Ho visto incidenti di ogni tipo. Mi ricorderò sempre di quello di Simone Sanna, che nel 1999, quando si giocava l’Europeo, centrò un altro pilota. La sicurezza in pista è migliorata tantissimo. Decisive, per esempio, sono state le introduzioni dell’airbag nelle tute motocicliste. Oppure l’halo sulle monoposto di Formula 1. Tuttavia, il rischio zero non esiste. E mai esisterà».

Le colpe dello spagnolo

Tresoldi scagiona dunque l’abolizione del warm up. José Antonio Rueda, al contrario, non sarebbe esente da colpe. Come mai? Sempre l’ex pilota ticinese: «Il giro di allineamento serve a preparare la moto alla gara, scaldando i freni e le gomme. Ci sono una ventina di piloti in pista, dunque bisogna stare molto attenti a come lo si affronta. Riguardando la scena dell’incidente, si nota come il conducente spagnolo sopraggiunga velocissimo e a testa bassa. Gli atleti sanno che si tratta di un giro pericoloso. Pure Rueda ne è pianamente consapevole, avendone affrontati in quantità sin da piccolo. Non ha senso fare un giro da pazzi. Io, per esempio, lasciavo passare tutti. Una volta ultimo potevo gestirmi a piacere. Se viaggi così forte, e sai che davanti hai una ventina di altri piloti, vuol dire che non ti stai comportando bene. Rueda e Dettwiler, inoltre, si trovavano su un rettilineo lungo. Noah era davanti, sulla sinistra, vicino al cordolo. Non in centro alla pista. Lo svizzero ha fatto tutto giusto: aveva un problema alla moto e si è tirato da parte. Lo spagnolo andava invece a duecento all’ora e con la testa bassa. Non si può prendere un rischio tale. Rueda ha parecchie responsabilità in questo incidente».

The show must go on

Eppure, nonostante tutto, le gare sono proseguite. Diversi piloti hanno espresso qualche dubbio di fronte alla decisione di non interrompere il weekend malesiano. Joan Mir ha scritto sui suoi canali social «Oggi abbiamo forse fatto la scelta sbagliata», mentre il campione di MotoGP Francesco Bagnaia si è detto dubbioso in merito alla mossa della FIM. «D’altronde per gli organizzatori the show must go on - ricorda Tresoldi -. Cambiando ambito, vi ricordate cosa è successo quando è morto Senna? Nessuno ha fermato la corsa. È brutto, sì, ma era così in passato e sarà così anche in futuro».

Ma i piloti che assistono in prima persona a queste tragedie, con che spirito tornano in pista dopo episodi simili? «Quando sei nel box le notizie arrivano frammentate. Non sai mai davvero come stanno andando le cose. Magari ti riferiscono che il collega è al centro medico, mentre tu intanto ti prepari a ripartire. Forse ci rifletti un secondo, ma un attimo dopo chiudi il casco e vai. Alla fine se sei in pista è perché correre è sempre stata la tua passione e nessuno ti può fermare. Ma d’altronde anche in tutti gli altri ambiti è così. Se succede una tragedia sul lavoro la produzione non si ferma».

Se vince l’adrenalina

Certo è che quando succedono di fronte a migliaia e migliaia di spettatori le cose sembrano diverse. Pare inconcepibile come, poco dopo un incidente tale, dei giovanissimi ragazzi tornino in pista come se nulla fosse. «Forse perché in quel momento, a farla da padrone, è l’adrenalina. Quando gareggiavo non avevo paura di niente. Anzi, mi piaceva talmente tanto correre che sarei sceso in pista anche all’una di notte. Anch’io ho visto morire dei piloti. Ho persino travolto un ragazzo io stesso. Poi si è saputo aveva avuto un infarto poco prima della caduta, ma le sensazioni rimangono forti. Neppure allora ho smesso. E non ho mai visto nessun atleta fermarsi per nessun motivo. L’esempio emblematico è quello di Valentino Rossi. Pur avendo dato il colpo di grazia a Simoncelli, un suo grandissimo amico, non ha lasciato il mondo delle due ruote.

Spero con tutto il cuore che Noah si riprenda. E se succederà sono sicuro che tornerà in sella, perché è quello che ama. Ora che ho 55 anni, io invece mi guardo indietro e penso a quanto sono stato fortunato. Non so se rifarei questo mestiere sapendo quello che so oggi», chiosa Marco Tresoldi.