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Tra il campione e Gian Claudio, fuoriclasse in pista e nella vita

Il ricordo di Clay Regazzoni a quindici anni dalla scomparsa dopo lo schianto vicino a Parma - La figlia Alessia: «Papà è morto come avrebbe voluto, facendo la cosa che più amava»
Clay Regazzoni amava i motori e le competizioni. Come ha ricordato la figlia Alessia, «alla guida di un’auto ritrovava se stesso».© AP/David Cheskin
Stefano Marelli
15.12.2021 06:00

Sono trascorsi esattamente quindici anni dalla scomparsa di Clay Regazzoni, da quello schianto vicino a Parma. «Il papà è morto come avrebbe voluto, facendo la cosa che più amava», disse un giorno la figlia Alessia. Il ricordo di un pilota sempre nel cuore degli sportivi ticinesi – e non solo – e di un fuoriclasse anche nella vita.

A darmi la notizia della morte del Clay fu il compianto collega Mariano Botta. Quella sera Ruby Belge combatteva ad Ascona contro Franck Aiello. Arrivai alla Palestra Vecchia con largo anticipo, ma lui ovviamente era già lì a scartabellare i suoi appunti. Prima ancora che potessi sedergli accanto, al tavolino di bordoring riservato alla stampa, mi disse: «Ha centrato un camion, vicino a Parma».

Fu impressionante, qualche giorno dopo, vedere quanta gente volle partecipare alle esequie. Molti – ovvio – erano lì per il Clay, per il campione. Ma tanti altri erano venuti invece per il Gian Claudio, come certe vecchiette del quartiere che l’avevano visto crescere.

Il saluto di Niki

E c’ero anch’io, quel 21 dicembre 2006. Ero lì per conto di un’altra testata, all’epoca mi occupavo di motori. Delle centinaia di cronisti presenti fui l’unico – insieme a Claudio Meier – a strappare una dichiarazione a Lauda. Lo vedemmo sbucare in anticipo dall’uscita della chiesa su Via Buffi. Gli fummo addosso, e lui ci concesse due parole in ricordo dell’amico. Quando nell’occasione di un’intervista lo riferii ad Alessia – la figlia di Clay – lei commentò sorridendo: «Tipico del Niki tagliare la corda prima di tutti gli altri. Se lo invitavano a una festa e proprio non poteva declinare, al massimo alle nove salutava e sgommava via. Mio padre era invece l’esatto contrario: amava stare con la gente ed era sempre l’ultimo ad andare a casa».

L’ammirazione del Drake

Più o meno le stesse parole pronunciate da Giulio Borsari, quindici anni fa, sul sagrato del Sacro Cuore. «Clay era il migliore di tutti», mi disse piangendo il vecchio capomeccanico. «Come pilota e come ragazzo, mai visto nessuno più generoso di lui. Dopo ogni gara, anche se magari avevamo grippato, tirava l’alba con noi. E quando c’era qualcosa da collaudare, anche soltanto una guarnizione, era sempre lui a fiondarsi a Fiorano a fare i test, non certo Lauda o Jacky Ickx».

«Il Commendator Ferrari era una gran brava persona – continuò Borsari – ma sbagliò a definire Regazzoni un playboy e un pilota a tempo perso».

Il Clay infatti ci era rimasto malissimo, quella volta, anche perché lui per la Ferrari si faceva davvero in quattro. Il primo ingaggio a Maranello gli aveva cambiato la vita e nei confronti del Cavallino fu sempre leale e riconoscente. Un giornalista, però, aveva riportato in modo alterato una dichiarazione del pilota e il Drake ribatté dicendo che Regazzoni correva per se stesso e non per la scuderia. Lo strappo fu ricucito soltanto dopo lo scambio di alcune lettere chiarificatrici.

La verità è che Ferrari ammirava molto Clay al volante, ne adorava l’istinto e lo stile temerario, ma si infuriava vedendolo ballare il tango in televisione abbracciato a Raffaella Carrà e quando gli riferivano che al luganese piaceva far festa e frequentare il bel mondo.

In realtà Regazzoni non faceva nulla di sbagliato, si stava soltanto godendo ciò che aveva conquistato lavorando seriamente e rischiando la pelle quasi ogni giorno a trecento km orari.

Critico e tagliente

Quell’ultimo autunno, qualche settimana prima dell’incidente autostradale in cui Clay perse la vita a 67 anni, l’avevo sentito in un paio di occasioni. La prima volta volevo stuzzicarlo sulla moda – che nasceva in quegli anni – di affidare volanti di Formula 1 a ragazzi appena maggiorenni. «Follia», mi rispose. «Alla mia epoca, prima di poggiare il culo su vetture così prestigiose dovevi fare una gavetta che non finiva più. Molti piloti, come me, esordivano in Formula 1 intorno ai trent’anni. L’esperienza era obbligatoria, dovevi conoscere ogni dettaglio delle corse, dei tracciati, dovevi aver vissuto in garage e pretendevano – giustamente – che conoscessi la funzione esatta di ogni singolo bullone».

Nemmeno immaginava il driver luganese che ben presto l’età dei corridori si sarebbe abbassata ulteriormente, e che il figlio di Verstappen – a soli 17 anni – sarebbe passato direttamente dalla playstation ai 900 cavalli della Toro Rosso. Ad ogni modo, era felice che qualcuno della stampa chiedesse il suo parere. Negli ultimi tempi, infatti, lo coinvolgevano sempre meno. Non dovendo niente a nessuno, poteva permettersi di essere critico, polemico, tagliente, e le sue parole davano spesso fastidio nel circus della Formula 1, un mondo che ormai faticava a riconoscere. Il pubblico, però, non aveva mai smesso di amarlo e di apprezzarne coraggio e trasparenza.

Ordini di scuderia

La seconda volta parlammo invece di ordini di scuderia e gerarchie nel box. A me pareva infatti scandaloso il modo in cui la Ferrari, in quegli ultimi anni, toglieva a Rubens Barrichello ogni possibilità di esprimersi. Trovavo ridicolo e vergognoso quando, a due giri dal traguardo, gli ordinavano di mollare per far trionfare Michael Schumacher. «Certo, va contro lo spirito sportivo – mi disse Clay dal Principato di Monaco – ma non è il caso di fare i verginelli. Anch’io dovetti adeguarmi, ma lo feci volentieri. Una volta dovetti alzare il piede dal gas e lasciar vincere Icks. Ovvio, un po’ mi rodeva, ma quando arrivai a Maranello le gerarchie erano chiare. Nel 1974 invece mi venne preferito Lauda, a cui davano sempre gomme e motori migliori, col risultato che alla fine restammo fregati entrambi, il titolo infatti lo vinse Emerson Fittipaldi su McLaren».

La forza della fede

Il 1974 fu l’anno migliore per Clay Regazzoni, che chiuse il Mondiale al secondo posto, tradito fra l’altro da una sospensione nell’ultimo Gran Premio. Il brasiliano a fine stagione totalizzò soltanto 3 punti più del ticinese. Tecnicamente, si chiama sfiga. «Il papà però non incolpò mai la sfortuna – mi disse Alessia in quell’intervista – e non lo fece neanche dopo l’incidente che lo mise in sedia a rotelle per il resto della vita. Se a Long Beach nel 1980 rimase paralizzato, ripeteva sempre, era perché il Cielo aveva deciso così. Non avesse avuto molta fede, mio padre non avrebbe mai trovato la forza per superare il dolore e la delusione per le false speranze che i medici gli avevano dato».

Una nuova vita

Una mazzata che avrebbe potuto stroncare chiunque, ma non il Gian Claudio, che proprio in quel momento mostrò al mondo intero, una volta ancora, di essere un fuoriclasse anche nella vita. La seconda parte della sua esistenza fu consacrata infatti alla sperimentazione e alla ricerca di ogni accorgimento che potesse migliorare le condizioni di chi, come lui, non poteva più muovere le gambe. Soprattutto, si capisce, per ciò che concerne la guida, in città come in pista. In quel campo, grazie all’esperienza, ai contatti e all’immagine di Regazzoni, si fecero enormi progressi a livello tecnico, e fu abbattuta anche qualche barriera, architettonica e mentale. Fra l’altro, fu grazie al suo impegno se un bel giorno venne a cadere il veto relativo alle competizioni per i disabili. Il Clay, infatti, senza gare non poteva stare: fino all’ultimo prese parte a corse di ogni tipo, sui mezzi più disparati, dalle auto d’epoca ai camion con cui affrontava i raid più massacranti.

«Ma a lui non è mai pesato», mi assicurò la figlia. «Alla guida per ore, papà ritrovava se stesso. Era una pratica terapeutica e consolatoria. Al volante l’handicap si annullava, e lui tornava a competere ad armi pari». E fu proprio aggrappato al volante che il Clay si congedò un pomeriggio di quindici anni fa. «Il papà è morto come avrebbe voluto, facendo la cosa che più amava. Ma forse avrebbe preferito andarsene col motore un po’ più su di giri: 80 km orari è una velocità che gli rende poco onore!».