Ciclismo

Netflix scommette sull'epica del Tour de France

Da domani il gigante dello streaming proporrà la serie realizzata durante l’ultima edizione della Grande Boucle - «Drive to survive» è il modello di riferimento - Mario Tirino: «Persiste il bisogno di fare i conti con la memoria e le emozioni»
Il grande duello del 2022 tra Jonas Vingegaard (in giallo) e Tadej Pogacar. © AP/DANIEL COLE
Massimo Solari
07.06.2023 06:00

Tocca dunque al ciclismo mettersi a nudo. E sul palcoscenico più prestigioso: il Tour de France. Dopo la Formula Uno, il tennis e il golf, Netflix scommette su una delle competizioni più iconiche. Sui suoi protagonisti e - soprattutto - sulla drammaturgia che da oltre un secolo rende unica la corsa alla maglia gialla. «Tour de France, au coeur du peloton» sarà disponibile da domani. E, nonostante l’esito dell’ultima Grande Boucle sia noto, l’avvincente duello fra Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard - ma non solo - è pronto a essere raccontato di nuovo. Dall’interno e, suggerivamo, facendo leva su uno storytelling travolgente. Drammatico, appunto. Il codice della narrazione è conosciuto. Drive to survive ha proiettato la fruizione dello sport in un’altra dimensione. Di più: l’universo dello streaming è stato capace - grazie a riprese spettacolari e intimità svelate - a ridare credibilità (e soldi, tanti soldi) al mondo delle quattro ruote. Ha funzionato, sì, soprattutto con la F1 e le ultime cinque stagioni presentate sotto una luce diversa. Qualche mugugno in più lo hanno invece sollevato Break Point e Full Swing.

In ritardo sulle attese

A meno di due mesi dalla 110. edizione del Tour, ecco dunque un intrigante biglietto da visita in otto episodi. Tudum. «In realtà, tutte le competizioni sportive a tappe, od organizzate secondo un calendario, possiedono una struttura drammaturgica che si presta molto bene a un racconto seriale» sottolinea Mario Tirino, ricercatore al Dipartimento di studi politici e sociali dell’Università di Salerno e co-curatore del recente volume Sport e comunicazione nell’era digitale. Media, processi e attori (ed. FrancoAngeli). Il ciclismo, fatto di fatica, ascese, cadute, appare in ogni caso come il soggetto perfetto. Tolta la docu-serie sulla Movistar - sempre firmata Netflix -, sorprende quindi che si sia arrivati solo ora al Tour. «È vero - conferma Tirino -, è come se questa serie arrivasse in ritardo. Forse, ma è un’ipotesi, sul ciclismo hanno pesato diversi anni di scandali. L’appeal mediatico della disciplina, detto altrimenti, è stato offuscato».

«Mitologia e radici profonde»

Ora ci siamo. E la sensazione, complice l’incredibile battaglia fra Vingegaard (trionfatore) e Pogacar (grande sconfitto), è che sarà un successo. «Il Tour posa su una mitologia e radici storiche profondissime nell’immaginario popolare» indica Tirino. «Rispetto a Giro e Vuelta, il suo brand è inoltre stato più lungimirante nell’internazionalizzarsi. Parliamo della prima corsa a tappe aperta a centinaia di giornalisti da tutto il mondo. E pure scorrendo la lista dei vincitori si può notare una certa distribuzione geografica. Non va poi scordato il rapporto fra squadre e impresa mediatica. Il Tour, così come il Giro d’Italia con la Gazzetta dello Sport, sono stati organizzati da un quotidiano per vendere più copie. Su iniziativa de L’Auto, nel caso francese. Siamo dunque di fronte al primo esempio di mediatizzazione di una competizione sportiva».

Ma il tennis non ha convinto

Secondo Mario Tirino, il modello Drive to survive dovrebbe costituire una garanzia. «Verrebbe infatti rispettato il pathos che la corsa stessa riproduce nella sua serializzazione. Nuove storie e imprese da assecondare di tappa in tappa, alle quali aggiungere un elemento forse unico: il dietro le quinte, poco noto e, di conseguenza, fattore d’attrazione». Dalla nascita della fortuna serie su Verstappen&Co sono però trascorsi diversi anni. E a fronte delle critiche riservate a Break Point e Full Swing vien da chiedersi se il treno del successo non abbia già lasciato la stazione. «Lo sport - osserva Tirino - è un fenomeno multiculturale. Ogni disciplina ha una sua epica, una sua etica, le sue mitologie appunto. L’impresa nella produzione seriale sta proprio nel trovare il modello giusto per ciascuna cultura sportiva. Il tennis, in questo senso, è forse più complicato da raccontare. Decine e decine di tornei, tanti anni di carriera... Il genere “biopic”, con la ricostruzione della biografia di un personaggio, potrebbe prestarsi meglio». La domanda rimane comunque importante. «Queste serie - prosegue Tirino - rispondono a una necessità degli spettatori. Una necessità che in passato veniva in qualche modo assolta dai media tradizionali. Come? Realizzando dei reportage in cui si tiravano le somme della stagione appena conclusa. Pensate solo agli almanacchi calcistici. Sebbene la società sia alle prese con tempi sempre più veloci, con il digitale ad abbreviare e sclerotizzare tutti i processi di comunicazione, a mio avviso permane il bisogno di fare i conti con ciò che è successo. Con la propria memoria. E per riuscirci serve un lasso di tempo più lungo entro cui misurare le emozioni e le prestazioni dei propri beniamini. No, lo sport non è ancora stato raccontato in tutte le modalità possibili. C’è un ampio margine di sperimentazione. Su tutte le piattaforme, non a caso, si registra una proliferazione del prodotto o di suoi derivati».

Screzi e dualismi forzati?

Come avvenuto con la F1, il ciclismo insegue o, meglio, vuole convincere il pubblico più giovane. Drive to survive ci è riuscito anche forzando la mano, creando dualismi e screzi non totalmente veritieri. «Beh - conclude Tirino - basterebbe ricordare come la Gazzetta abbia marciato sul duello tra Bartali e Coppi. Anche allora si trattò di enfatizzare un conflitto, che in fondo è il motore di chi racconta lo sport. Tornando all’ultimo Tour e alla sua serie, alla base della sfida tra Vingegaard e Pogacar esisteva una rivalità effettiva. In caso contrario, la stretta di mano tra i due, prima dell’epico e determinante arrivo sul Col du Granon, non avrebbe fatto così scalpore».

Lo svizzero Stefan Bissegger, favorito per la crono d’apertura ma caduto due volte. O ancora la favola dell’olandese Fabio Jakobsen, vincitore di tappa a due anni di distanza dalla morte sfiorata al Giro di Polonia. Netflix racconta questa e altre storie di otto team. Fra loro non figura l’UAE di Tadej Pogacar, contraria alle condizioni dei produttori.