L'intervista

Nino Niederreiter: «L’America mi ha reso più aperto, ma so che tornerò sempre a casa»

Il capitano della nazionale rossocrociata, attaccante dei Winnipeg Jets in NHL, si racconta a margine dei Mondiali di Riga
© Keystone/Salvatore Di Nolfi
Fernando Lavezzo
18.05.2023 17:30

Con 897 partite giocate in tredici anni, Nino Niederreiter è il nostro veterano in NHL. È stato lui il primo attaccante svizzero ad imporsi nella lega nordamericana. Ai Mondiali di Riga, il trentenne grigionese è stato nominato capitano. Lo abbiamo incontrato mercoledì nell’hotel della nazionale rossocrociata.

Nino, l’oro mondiale è possibile?
«Siamo in missione e ci proveremo con tutte le nostre forze. Negli ultimi dieci anni siamo arrivati due volte vicini al titolo, nel 2013 e soprattutto nel 2018, quando abbiamo perso la finale soltanto ai rigori. Io c’ero in entrambe le occasioni e ho tanta voglia di riprovarci. Sarebbe straordinario».

Cosa significa essere il capitano della propria Nazionale?
«Quando vedo la C sulla mia maglia, mi sento bene. Sono onorato e voglio rappresentare al meglio il nostro Paese. Allo stesso tempo, però, credo che in molti avrebbero potuto essere al mio posto. Io sono il capitano, ma abbiamo bisogno di tutti per avere successo in questo lungo torneo».

Vista la tua grande carriera, rappresenti qualcosa di importante al di là di quella «C» sul petto...
«Non mi nascondo. Voglio essere un leader e un esempio. Mi viene naturale avere una buona attitudine, in pista e fuori. Sono una persona positiva. Parlo molto con i compagni: in panchina, sul bus, in albergo, passeggiando per Riga. Mi piace che gli altri vedano quanto amore e quanta passione metto nel nostro sport».

Quando vedo la C sulla mia maglia, mi sento bene. Sono onorato e voglio rappresentare al meglio il nostro Paese
Nino Niederreiter

A chi ti ispiri, in fatto di leadership?
«Soprattutto a Mathias Seger. Era lui il capitano in occasione del mio primo Mondiale, quello del 2010 in Germania. Un esempio di leadership portata avanti con gioia e passione. La sua più grande lezione è stata questa: indossare la C non significa fare tutto. Significa assicurarsi che ognuno, in squadra, sia consapevole di poter far sentire la propria voce. Tutti devono avere delle responsabilità e un ruolo in cui riconoscersi. Qualcosa che li renda unici, speciali e indispensabili a modo loro. Mathias, in questo senso, era davvero bravissimo. Cerco di imitarlo. Voglio essere il braccio destro di Fischer».

Mark Streit è considerato il pioniere svizzero in NHL. Tu, però, lo sei stato per i nostri attaccanti. E anche per il modo in cui ci sei arrivato, ovvero partendo dalle leghe juniores nordamericane.
«Mark Streit ha aperto la strada a 27 anni, dimostrando che non è mai troppo tardi per imporsi oltre oceano. Roman Josi ci è arrivato a 21 anni, dopo aver vinto un titolo con il Berna e aver trascorso un anno in AHL. Io ho seguito la via tracciata da Luca Sbisa, lasciando la Svizzera a 17 anni. Insomma, credo che ogni giocatore elvetico in NHL sia stato un pioniere. Perché ognuno ha seguito un percorso tutto suo. Dean Kukan e Kevin Fiala, ad esempio, sono prima passati dalla Svezia».

Ogni strada è unica, insomma.
«Esattamente. Il segreto è trovare quella giusta per sé stessi e poi tenere duro. Io non ho mai mollato e in questo posso dire di essere stato un buon esempio. Dopo il primo anno di apprendistato con i New York Islanders, ho trascorso un’intera stagione in AHL. Poi ho avuto una nuova chance ai Minnesota Wild e la mia carriera è decollata. Ora il gioco in NHL è cambiato molto rispetto al mio arrivo, tredici anni fa. A quei tempi, se eri grande, grosso e fisicamente forte, avevi più chance di importi. Ora la situazione è più favorevole per attaccanti come Fiala e Malgin, piccoli, talentuosi e velocissimi. Io ho dovuto riadattarmi e cambiare il mio stile per continuare ad avere successo».

Ho una grande facilità nei rapporti, mi piace molto chiacchierare, conoscere gente nuova, culture diverse. Credo che sia stata l’America a sbloccarmi
Nino Niederreiter

Lo scorso febbraio, dopo 56 partite di campionato, sei stato ceduto dai Nashville Predators ai Winnipeg Jets. Una situazione simile ti era già capitata nel gennaio del 2019. Quanto è dura dover partire senza preavviso, per una decisione presa da altri?
«Come detto, sono una persona molto positiva. E anche in queste circostanze ho cercato di vedere il bicchiere mezzo pieno. Come nel 2019, quando passai dai Minnesota Wild ai Carolina Hurricanes, anche stavolta sono finito in una squadra con maggiori possibilità di lottare per la Stanley Cup. Negli ultimi dieci anni ho sempre preso parte ai playoff, una cosa che mi rende molto orgoglioso. Ovviamente essere scambiato a stagione in corso non è mai divertente. Ero approdato a Nashville in estate, felice di giocare con il mio grande amico Roman Josi. Nei mesi trascorsi in Tennessee mi ero molto legato alla sua famiglia, ai suoi bambini. Lasciarli è stato difficile. A Winnipeg, però, ho trovato un ambiente accogliente e tifosi appassionati. Fa più freddo che a Nashville, ma nel complesso è stato un buon cambiamento. Ho di nuovo imparato molto».

Se ti guardi indietro, sei già soddisfatto di quanto hai fatto e ottenuto nella tua carriera?
«Sì e no. Ho giocato quasi 900 partite in NHL e di questo vado molto fiero. Da bambino sognavo di giocarne almeno una... Allo stesso tempo, però, non ho ancora vinto la Stanley Cup. Non puoi essere del tutto soddisfatto finché non metti le mani su quel trofeo. Vale per chiunque. A livello individuale, Connor McDavid e Leon Draisaitl continuano a fare cose sensazionali. Hanno chiuso la classifica marcatori al primo e secondo posto, con 153 e 128 punti. Ma i loro Edmonton Oilers sono di nuovo usciti prematuramente dai playoff e non erano affatto soddisfatti, ve lo garantisco. Non fraintendetemi: io sono un uomo e un giocatore felice. Mi godo ogni giorno il fatto di giocare in NHL e spero di restarci il più a lungo possibile. Ma l’obiettivo finale è uno solo: vedere il mio nome scritto su quella mitica coppa».

Non manca tanto al traguardo delle 1.000 partite in NHL...
«Ho già iniziato a pensarci, lo ammetto, ma devo continuare a lavorare sodo per restare in buona salute e avere un impatto nella mia squadra».

C’è qualcosa che mi lega ai Grigioni, a Coira, e so che tornerò sempre a casa
Nino Niederreiter

Tra qualche anno, ti ci vedi a chiudere la carriera in Svizzera?
«Me lo chiedono spesso, ma non ho mai una risposta. Di sicuro non tornerei tanto per farlo o per vivacchiare. Non accetterei mai di essere un peso per la mia squadra. Giocherò finché potrò rendermi utile e avrò voglia di dare il massimo, di inseguire nuovi obiettivi. Finché sarà divertente. Insomma, un po’ come fa Andres Ambühl. Se capirò di non essere più il giocatore di prima, a livello di spirito e motivazioni, allora smetterò. Non sai mai quando quel giorno arriverà. Ne ho parlato con Renato Tosio, ex portiere del Berna e mio concittadino di Coira. Mi ha fatto capire che - tornando indietro - avrebbe continuato altri 2 o 3 anni. Io non vorrei avere rimpianti».

Hai trascorso quasi metà della tua vita oltre oceano. In cosa ti senti americano?
«Sono una persona aperta, più di quanto fossi da giovane. Non sono mai stato timido, ma da ragazzo preferivo stare un passo indietro e osservare cosa succedeva. Ora è diverso. Ho una grande facilità nei rapporti, mi piace molto chiacchierare, conoscere gente nuova, culture diverse. Credo che sia stata l’America a sbloccarmi».

In cosa, invece, sei ancora profondamente svizzero?
«È più che altro una sensazione. C’è qualcosa che mi lega ai Grigioni, a Coira, e so che tornerò sempre a casa. Quando non posso andarci fisicamente, viaggio con la mente e con il cuore. Anche negli USA e in Canada coltivo le tradizioni elvetiche. Non mi faccio mai mancare una buona raclette. Mi piace passare molto tempo a tavola in compagnia, senza fretta. E amo andare a prendermi un caffè al bar nel pomeriggio».

Che rapporto hai con gli altri giocatori svizzeri di NHL? Riuscite a incontrarvi fuori dal ghiaccio?
«In trasferta cerco sempre di ritagliarmi un momento per stare con loro, prima o dopo la partita. Finiamo spesso per parlare di Nazionale, dei bei momenti trascorsi insieme e del prossimo Mondiale. Durante gli ultimi playoff, sapendo che Josi era infortunato, gli ho scritto diverse volte. Gli dicevo che io, ai Mondiali, ci sarei andato di sicuro, qualora fossi uscito al primo o al secondo turno. Roman mi ha sempre risposto che anche lui avrebbe fatto di tutto per andare a Riga. Purtroppo non ha potuto venire. L’altro giorno ci siamo sentiti. Mi ha ribadito quanto ci tenesse ad essere qui con noi. Ma con una commozione cerebrale non si scherza, io ci sono già passato. Abbiamo un solo cervello e dobbiamo proteggerlo. Se dovessimo vincere l’oro, farei subito una videochiamata a Roman per dirgli che quella medaglia è anche sua».

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