Calcio

Paolo Tramezzani sul trono di Cipro con l’Apoel Nicosia

L’ex tecnico del Lugano festeggia la conquista dello scudetto, il suo primo titolo in carriera: «Adesso sogno anche la Coppa» – Spazio anche ai ricordi e ad Angelo Renzetti: «Non riesco ad immaginarmi i bianconeri senza di lui»
L’allenatore dell’Apoel Nicosia Paolo Tramezzani. (Foto Zocchetti)
Marcello Pelizzari
16.05.2019 06:00

A Cipro fa caldo. Il termometro segna 37 gradi. «Si sta bene» spiega divertito Tramezzani. Ma non è una questione di clima. Non solo, diciamo. L’ex allenatore del Lugano ha appena vinto il titolo con l’Apoel Nicosia, squadra ereditata il 10 ottobre e – allora – in piena crisi. Oggi la tifoseria della capitale è in festa: siamo allo scudetto numero 28. E attenzione, perché mercoledì prossimo i gialloblù contenderanno la Coppa cipriota all’AEL Limassol. C’è odore di doppietta.

«La soddisfazione è tanta, ma oramai mi conoscete» prosegue l’emiliano. «Non mi fermo a festeggiare, guardo oltre. La Coppa, il prossimo ritiro, i preliminari di Champions. Però sì, sono felicissimo. È il mio primo alloro come allenatore ed è qualcosa di bellissimo».

Bellissimo e sofferto?

«Diciamo che venire a Cipro, rispetto al Lugano e alla Svizzera, è stato un salto nel buio. Non conoscevo questo calcio. L’Apoel, poi, era stato protagonista di un inizio stagione terribile: fuori sia dalla Champions sia dall’Europa League, sconfitto in Supercoppa, attardato in campionato. Piano piano, però, ho capito che il gruppo mi dava delle risposte. E che i ragazzi mi seguivano, apprezzando la mia proposta di calcio».

Analogie con il Lugano e la cavalcata del 2017?

«Come a Lugano, anche all’Apoel sono stato chiaro e trasparente con la squadra. Sin dal primo giorno. A Cornaredo però c’era una differenza: l’obiettivo iniziale era la salvezza. Qui, invece, parliamo di un club che sa soltanto vincere e vuole il massimo. Per certi versi è stato molto più difficile fare risultato a Cipro».

Quali i momenti chiave?

«L’Apoel era abituato al 4-2-3-1. Prima di affrontare l’Apollon Limassol, il nostro rivale più accreditato, capace di battere la Lazio in Europa League, ho avuto una sorta di epifania: passiamo al 3-5-2. Era dicembre e vincemmo 5-1. Li abbiamo affrontati altre tre volte, centrando altrettanti successi. A marzo, poco prima di salire sul bus per Limassol, saltò fuori che l’Apollon aveva vinto un ricorso per un match con l’Anorthosis. In classifica si erano rifatti sotto, portandosi a -2. E il match iniziò male, con loro in vantaggio 1-0. Dal nostro +5 di base ci trovammo virtualmente a -1. Ma reagimmo e al 90’ strappammo un 3-1. Quando batti il tuo avversario più profilato quattro volte su quattro, significa che meriti il titolo».

Il 3-5-2 è il suo marchio di fabbrica...

«Vero, ma ho scoperto anche il 3-4-3. Un modulo di cui non mi fidavo granché, dal momento che avrebbe richiesto molto lavoro ai mediani. Ma l’ho usato e per me è stata un’introduzione importante».

Domanda secca: Tramezzani resterà a Cipro o allenerà ad un livello superiore la prossima stagione?

«Ne stiamo parlando. L’idea di fare la Champions è allettante, anche se partiremo dal secondo turno preliminare. La Serie A italiana? Ci penso, ma non più di tanto. Se avessi voluto tornare a casa, beh, l’avrei già fatto. Sono contento dove sto e sono felicissimo di aver accettato un’avventura a Cipro. Un Paese nuovo».

Perché gli italiani all’estero se la cavano sempre egregiamente?

«Forse perché noi, rispetto ai tecnici di altri Paesi, sappiamo adattarci meglio al contesto e ai giocatori a disposizione. Un allenatore spagnolo che fa possesso, ad esempio, ha bisogno della qualità. Noi siamo più semplici. Insistiamo tanto su concetti base come le diagonali».

A Cipro cosa ha trovato?

«La passione. Che è basilare per me. Qui il calcio è vissuto con trasporto, nel bene ma anche nel male. È come in Grecia o in Turchia. All’inizio sono stato accolto con diffidenza, la gente credeva che non fossi all’altezza del compito. Poi sono arrivati i primi risultati e i tifosi mi hanno trattato come un dio greco. Non è che cercassi il loro affetto, ci mancherebbe, però sono contento che il mio lavoro è stato capito, apprezzato e rispettato».

Klopp fino all’altroieri era il perdente per definizione. Adesso è in finale. È un discorso applicabile anche ai giocatori, penso a Messi incoronato dopo il 3-0 al Liverpool ma poi buttato giù dal trono perché il Barcellona è stato eliminato. Io, come allenatore, ho imparato che non devi mai goderti una vittoria ma andare oltre. Guardare avanti

Le semifinali di Champions ci hanno insegnato che un minimo dettaglio, oltre a cambiare risultato e destino di una partita, può far passare un allenatore da santo a peccatore. E viceversa.

«Klopp fino all’altroieri era il perdente per definizione. Adesso è in finale. È un discorso applicabile anche ai giocatori, penso a Messi incoronato dopo il 3-0 al Liverpool ma poi buttato giù dal trono perché il Barcellona è stato eliminato. Io, come allenatore, ho imparato che non devi mai goderti una vittoria ma andare oltre. Guardare avanti. È una mia fissa e mia moglie si arrabbia sempre. Dice che dovrei rilassarmi di più. Purtroppo o per fortuna, il risultato è sempre la prima e spesso unica discriminante: se vinci sei un eroe, quando perdi invece per tutti sei da cacciare».

A suo tempo lei è stato un giocatore del Tottenham. Che effetto fa trovare gli Spurs in finale di Champions?

«La finale tutta inglese ha scombinato il ranking in vista della prossima edizione. L’Apoel ha beneficiato di uno sconto, per cui dico grazie al Tottenham: partiremo dal secondo turno di qualificazione e non dal primo. Da ex giocatore, non posso che tifare Spurs in finale».

L’Europa è un obiettivo del Lugano. C’è un terzo posto da conquistare, proprio come due anni fa. Qualche consiglio?

«No, non ne ho. La situazione rispetto a due anni fa è completamente diversa. All’epoca noi centrammo la salvezza a sette giornate dal termine: tutto ciò che arrivò dopo fu uno spasso. Andavamo in campo rilassati, tolta l’ultima partita con il Lucerna. E questo perché l’obiettivo era stato raggiunto e vivevamo la corsa verso l’Europa come un premio. Ora il Lugano è in una sorta di limbo: quando mancano tre turni alla fine, i bianconeri potrebbero finire al terzo posto e forse ai gironi di Europa League o scivolare in basso, perfino al nono rango sinonimo di spareggio. Di squadre in questa situazione ce ne sono parecchie. Detto ciò, io sono ottimista. Tolto lo Young Boys, che è di un altro pianeta, il Lugano secondo me può battere chiunque».

Se lo immagina un Lugano senza Angelo Renzetti un domani?

«Ho sentito della trattativa per cedere il club e di questo tira e molla. Mi dicono che il presidente sia deciso a cedere, ma per me il Lugano è lui. Ho seguito questo club per cinque anni quando ero vice dell’Albania. E c’era Angelo. Davvero, faccio fatica ad immaginare un Lugano senza il suo condottiero. Poi per carità, il club avrà comunque un futuro se caso e lo stesso Renzetti riuscirà a staccarsi dalla sua creatura».

In conclusione, a chi dedica il suo primo titolo come allenatore?

«Sarò banale, ma dedico questa vittoria alla mia famiglia. Io interpreto il lavoro come una gioia e un divertimento. Per me il calcio è passione. Mia moglie e mia figlia, invece, devono sempre adattarsi e avere la valigia pronta. Fanno tantissimi sacrifici, accettano di seguirmi ovunque io vada. E credetemi, non è semplice. Vincere è solo un modo per restituire il loro affetto e la loro fiducia».