Hockey

Quando sbarcarono gli alieni della NHL

Venticinque anni fa, nel novembre del 1994, il primo lockout portò in Svizzera Kamensky, Gilmour e Chelios
Valeri Kamensky abbracciato da Igor Fedulov e Tiziano Gianini © CdT/Archivio
Fernando Lavezzo
08.11.2019 06:00

Non sembra esserci un oceano in mezzo. Oggi della National Hockey League conosciamo ogni dettaglio. Aggiornamenti in tempo reale, statistiche, video in alta definizione: ogni cosa è a portata di telefonino. Nel massimo campionato nordamericano, addirittura, ci giocano tanti ragazzi cresciuti sulle nostre piste.

Venticinque anni fa non era mica così. Niente internet, rari filmati in televisione, videogiochi primordiali, videocassette sgranate arrivate chissà come a casa di qualche amico. Per vedere il primo pioniere svizzero in NHL bisogna aspettare il 29 gennaio del 1995, quando il portiere ticinese Pauli Jaks viene schierato per 40 minuti dai Los Angeles Kings di Wayne Gretzky.

La storia che raccontiamo oggi, però, inizia alcuni mesi prima. Più precisamente il 15 novembre del 1994, da questa parte dell’Atlantico. Proprio quel giorno, nella LNA elvetica, esordiscono due leggende dell’hockey mondiale: il russo Valeri Kamensky con la maglia dell’Ambrì Piotta e il canadese Doug Gilmour con quella del Rapperswil. Poco dopo, a Bienne, sbarca un altro alieno: Chris Chelios. Sembra un sogno, invece è realtà. Merito del primo, storico «lockout» della NHL, lo sciopero dei giocatori che cancellò metà regular season, rinviando l’inizio del campionato nordamericano al 20 gennaio del 1995.

Riviviamo quelle settimane di passione con tre ex giocatori: Tiziano Gianini, già capitano dell’Ambrì; il CEO dell’HCL Marco Werder (a quei tempi attaccante del Rapperswil) e il giornalista romando Cyrill Pasche, per tanti anni in forza al Bienne.

Gianini, l'Ambrì e il russo venuto dal Québec

Valery Kamensky, attaccante dei Québec Nordiques, giunse in Leventina per sostituire l’infortunato Dmitri Kvartalnov. In quell’autunno senza NHL, i russi impegnati oltre oceano erano tornati in patria per effettuare una tournée, esibendosi in partite amichevoli contro le loro ex squadre. Kamensky, già contattato dai dirigenti dell’HCAP al termine della stagione precedente, si propose al club biancoblù. Che non perse l’occasione.

«Quando ci dissero che avevamo ingaggiato Kamensky mi sembrò incredibile», racconta Tiziano Gianini, all’epoca ventunenne difensore biancoblù. «Avevamo un allenatore russo, Alexander Jakushev, e questo favorì l’arrivo del grande Kamensky. Ma decisivi furono i contatti del direttore sportivo Sergio Gobbi con l’hockey russo. Tutto l’ambiente aspettava con trepidazione di poter vedere all’opera questo mitico campione. A Valeri bastarono pochi colpi di pattino per confermare la sua superiorità. Nelle dodici partite giocate con noi diede spettacolo e fece quasi sempre la differenza».

Cose mai viste

Dodici partite per lasciare il segno, tra il 15 novembre 1994 e il 10 gennaio 1995. La prima la giocò alla Valascia contro il Davos, al fianco di Peter Jaks e dell’acciaccato Dmitri Kvartalnov. Quest’ultimo, il giorno dopo, si sarebbe operato al ginocchio. I grigionesi andarono sul 2-0, ma proprio Kamensky lanciò la rimonta leventinese. Finì 4-2 per l’Ambrì.

In totale, con la maglia biancoblù numero 13, Valeri Kamensky totalizzò 13 gol e 6 assist. «In spogliatoio ricordo un giocatore tranquillo, umile. Era uno di noi, non si atteggiava a star. Un vero signore», racconta ancora Tiziano Gianini. «Sul ghiaccio, invece, era proprio di un altro pianeta. Aveva una velocità d’esecuzione mai vista, una tecnica sublime. Con due pattinate riusciva a saltare l’uomo e a volare via».

Quel derby indimenticabile

Gianini ricorda un paio di episodi in particolare: «L’esempio emblematico della sua classe è racchiuso in un gol segnato al Davos: tre finte sul difensore Egli e tiro all’incrocio alle spalle di Wieser. Un gioiellino. La dimostrazione che Valeri aveva qualcosa in più». E poi c’è il famoso derby dell’11 dicembre: «Indimenticabile. Al 39’ il Lugano vinceva 5-2, ma a 38 secondi dalla seconda sirena fu proprio Kamensky a riaprire il confronto. Nel terzo tempo, poi, ci scatenammo. Segnarono Wittmann, ancora Valeri, e infine Peter Jaks, con una staffilata pazzesca appena fuori la linea blu. Un tiro che non diede scampo a Lars Weibel e che valse il 6-5 per noi. Ricordo ancora il boato della Valascia. Kamensky era felicissimo. Era venuto in Svizzera per vivere momenti come quello. Non era da noi soltanto per tenersi in forma. Ci teneva davvero, voleva darci una mano e non si risparmiò mai. Lontano dalla pista lo frequentavamo poco, era un tipo piuttosto riservato, ma negli scorsi anni, quando è tornato in Ticino con le All Stars russe, ci ha sempre dimostrato tanto affetto».

Werder, il Rappi e la leggenda di Toronto

Doug Gilmour (al centro) con il presidente del Rapperswil e alcuni tifosi © Keystone/Str
Doug Gilmour (al centro) con il presidente del Rapperswil e alcuni tifosi © Keystone/Str

«Bei tempi quelli lì, quando si pensava solo a giocare». Marco Werder, CEO dell’Hockey Club Lugano, ricorda con affetto il suo passato da attaccante. Nella stagione 1994-95, quella del primo «lockout» NHL, era in forza al Rapperswil. Un bel giorno di metà novembre, si trovò in pista con un compagno speciale: Doug Gilmour, attaccante e capitano dei Toronto Maple Leafs, già vincitore di una Stanley Cup con Calgary.

«All’epoca – racconta Werder – la NHL era una cosa lontanissima. In televisione se ne parlava una volta all’anno, per dire chi aveva vinto il titolo. Io ero stato in Canada e avevo visto delle partite, ma non eravamo informati su quanto succedeva lì. Era la lega degli extraterrestri. Da noi gli alieni erano Bykov e Chomutov, assoluti dominatori».

Poi Doug Gilmour arrivò al Lido di Rapperswil: «Quando ci comunicarono il suo ingaggio, non sapevamo bene chi fosse. Dopo esserci informati, però, realizzammo che si trattava di una superstar, in arrivo da una delle piazze di hockey più importanti al mondo. Eravamo molto eccitati all’idea di giocare con lui».

Casco rotto, pattini slacciati

Marco Werder sorride ricordando il primo impatto con Gilmour: «Nel nostro immaginario, la NHL era dominata da colossi di 100 kg. Pensavamo che Doug fosse una specie di mostro, grosso il doppio di noi. Invece era più piccolo di me. Il primo giorno si presentò in ritardo per colpa del volo. Eravamo già tutti sul ghiaccio quando arrivò questo tizio sdentato. Aveva i pattini slacciati e un vecchissimo casco della CCM mezzo rotto, al quale mancava uno degli anelli attorno alle orecchie. Io e i miei compagni ci guardammo perplessi. Prima di debuttare in campionato, si allenò con noi per due giorni: sembrava che non gli importasse nulla».

L’apparenza, però, inganna: «Quando finalmente arrivò la sera della sua prima partita, Gilmour si trasformò. La cosa mi impressionò molto: sembrava che avesse un interruttore da accendere e spegnere a piacimento. Durante il warm-up era ancora distratto, disinteressato. Poi, però, entrava in modalità partita. Gli occhi gli diventavano neri, lo sguardo era totalmente focalizzato. Sembrava che avessero sguinzagliato una bestia feroce».

Passaggi millimetrici

Nelle sue 9 partite con la maglia del Rapperswil, Gilmour totalizzò 2 gol e 13 assist: «Era un attaccante stratosferico», spiega il dirigente bianconero. «In particolare aveva una visione di gioco eccezionale. Ricordo che in power-play riusciva a tenere gli occhi bassi, fissi sul disco, per poi far partire dei passaggi impossibili, millimetrici. A trarne vantaggio fu soprattutto Harry Rogenmoser, che aveva la fortuna di giocare sempre al suo fianco».

Anche fuori dal ghiaccio, Gilmour imparò subito a fraternizzare con i compagni: «Era una persona eccezionale, umilissima, sempre ben disposta ad aiutare i giovani. Si integrò perfettamente nella realtà del club e della squadra. All’epoca si giocava ancora al ritmo martedì-sabato e c’era più tempo per stare con i compagni. Andavamo spesso a cena fuori e gli piaceva soddisfare la curiosità di tutti noi, raccontandoci fantastiche storie di hockey. A sua volta era molto interessato alla cultura svizzera».

Banconote e gomitate

Tra tante serate in compagnia di Gilmour, una è rimasta nel cuore di Werder: «Prima di tornare in Canada, Doug decise di invitare tutta la squadra a cena. Quando ce lo disse, in spogliatoio, indossava delle salopette in jeans. Aveva messo tutti i suoi soldi nel tascone davanti, all’altezza del petto. Si rivolse a un nostro giovane compagno, uno junior che guadagnava pochi spiccioli, e tirò fuori un mazzetto di banconote da mille franchi, chiedendo a quel ragazzino se sarebbero bastate per far mangiare tutti».

Anche l’ultima partita ha lasciato il segno: «Giocavamo a Berna e Doug sapeva già di dover rientrare subito a Toronto. Andreas Beutler, rognoso difensore degli Orsi, iniziò a provocarlo sin dal primo minuto. La gara non stava andando per il verso giusto e allora Gilmour decise di chiudere la bocca a quel fastidioso avversario. In spogliatoio, durante la seconda pausa, ci disse: ‘‘Ragazzi, io qui ho finito’’. Si tolse i paragomiti, tornò sul ghiaccio per il terzo tempo, e al primo cambio saltò addosso a Beutler, colpendolo sul naso con il gomito. Penalità di partita e tanti saluti».

Pasche, il Bienne e la classe di Chelios

Cyrll Pasche è un 45.enne giornalista sportivo specializzato nell’hockey. Conosce la materia alla perfezione, avendo giocato 16 stagioni in Lega nazionale. Nel novembre del 1994 era un giovane attaccante del Bienne e si trovò a condividere lo spogliatoio con il mitico Chris Chelios, arrivato dai Chicago Blackhawks durante il «lockout». «La cosa divertente – racconta – è che venni a sapere del suo ingaggio prima di tutti i compagni. All’epoca lavoravo nell’ufficio del presidente del club come apprendista di commercio. Tra le mie mansioni c’era lo smistamento dei fax. Ebbene, un mattino mi capitò in mano la copia del contratto di Chelios. Qualche ora dopo, all’allenamento, sentivo il bisogno di raccontarlo a qualcuno. Lo dissi a Gilles Dubois, uno che sapeva tutto».

Tutti in piedi ad applaudire

Chris Chelios chiuse la sua carriera nel 2010, a 48 anni, dopo 1917 partite in NHL e tre Stanley Cup. «Ricordo bene il suo primo giorno da noi», racconta Pasche. «All’epoca di NHL si vedeva poco. Lo conoscevamo di nome, certo, ma non sapevamo esattamente cosa aspettarci. Al suo arrivo ci dissero di alzarci in piedi e di applaudirlo. Deve aver pensato che fossimo tutti pazzi. Inizialmente, poi, aveva un suo spogliatoio privato. Non fu lui a chiederlo, ma il Bienne voleva fare bella figura. Per il primo allenamento vennero molti tifosi».

Chelios si dimostrò subito un tipo alla mano: «Eravamo un po’ intimiditi, ma lui era simpaticissimo. Usciva spesso coi compagni, nei bar della città. Partecipava alla vita della squadra e del club, non se ne stava di certo rintanato da solo nel suo hotel. Purtroppo rimase pochissimo: giocò solo tre partite, poi si infortunò».

Tre partite in cui mostrò la sua classe: «All’epoca la differenza tra stranieri e svizzeri era grande. E lui sembrava praticare un altro sport. Mise in difficoltà persino Bykov e Chomutov. Non era grosso come immaginavo (182 cm, ndr.), ma faceva cose assurde. Per tenersi in forma pedalava su una cyclette dentro la sauna».