Calcio

Quanto è difficile fare il calciatore in Challenge League

Sempre più giocatori scendono di categoria affiancando un lavoro «vero» al campo: ne parliamo con Rey, Perrier e Tarchini
Antoine Rey (a sinistra) ha lasciato il Chiasso: giocherà nel Mendrisio e inizierà a lavorare in banca. (Foto Zocchetti)
Marcello Pelizzari
02.01.2019 17:52

Mettetevi nei panni di un calciatore. E ponetevi questa domanda: è possibile vivere di solo pallone? Non sempre. Anzi, quasi mai se consideriamo unicamente la Challenge League svizzera. Un campionato che attira poco pubblico e pochissimi sponsor. E che di riflesso offre condizioni salariali tutto fuorché allettanti. Ne sanno qualcosa ragazzi come Antoine Rey o Michael Perrier, «costretti» ad anticipare l’addio al professionismo. A suo tempo avevano fatto una scelta simile anche Samuele Preisig e Tito Tarchini.

Esasperati dalle continue scalate alla Super fallite, i tifosi del Lugano anni fa inventarono un coro sulle note di «Enola Gay». Faceva più o meno così: «La Challenge League, questo mondo fantastico, voglio restare qui, con i posticipi al lunedì». Un modo come un altro per convivere con lo squallore del torneo cadetto, ancora oggi alla ricerca di un’anima e di un’identità. Già allora si parlava di professionismo. O meglio, di come migliorare le condizioni quadro per i calciatori impegnati nella nostra B. Poco o nulla è cambiato nel frattempo. Moltissimi «pro» hanno tuttora stipendi bassissimi. E così, il partito di chi dice basta anzitempo aumenta.

C’è chi cambia per amore

Michael Perrier compirà trent’anni a marzo. È vallesano ma calcisticamente (e non solo) è cresciuto in Ticino. «Mi considero uno di voi» dice spesso. Da pochi giorni è un centrocampista dello Stade Losanna, in Promotion League. Il terzo livello della piramide, dove vige un regime di semiprofessionismo. Alle spalle 42 partite in Super League e 262 in Challenge con le maglie di Lugano, Chiasso, Bellinzona, Sion e infine Aarau. «È vero, il fisico mi avrebbe permesso di giocare in B ancora per un paio di stagioni almeno» dice sorridendo. «Ma non avvertivo più la necessaria fiducia da parte dell’Aarau». Il contratto di Perrier con gli argoviesi sarebbe scaduto a giugno. «Nessun dirigente in queste settimane mi ha proposto di rinnovare». Al contrario, «mi è stato detto che avrei potuto trattare con altri club». Da qui la decisione di lasciare il Brügglifeld. E di cambiare prospettiva. «Ho scelto lo Stade Losanna perché il progetto sportivo è affascinante» afferma Perrier. «L’obiettivo del club è conquistare la promozione in Challenge. Ma ho scelto lo Stade anche per motivi personali e famigliari». Perrier è iscritto alla HES SO Valais e a breve conta di ottenere il bachelor in fisioterapia. «Avevo la sensazione, quando ero professionista, che i club non vedessero di buon occhio i calciatori impegnati negli studi. Ora posso conciliare le due cose». Allo stesso tempo, Michael spera di poter «sistemare» anche sua moglie. «Lei è inglese e finora ha fatto la spola fra la Svizzera e Londra. Sono convinto che spostandoci a Losanna, con Ginevra peraltro vicinissima, le cose miglioreranno pure per lei. Diciamo che la mia è stata una scelta d’amore, allora». Amore e futuro, visto che «con i soldi guadagnati in carriera non avremmo mai potuto vivere di rendita. Era arrivato il momento di pensare al cosiddetto dopo».

La necessità di inserirsi

Già, il dopo. Anche Antoine Rey ha giocato d’anticipo. «Solamente i Buffon durano a lungo ai massimi livelli» racconta l’ex centrocampista di Losanna, Lugano e Chiasso, 32 anni e un’infinità di partite alle spalle (52 nel massimo campionato, 298 nel torneo cadetto). Già capitano bianconero, «Rocky» lunedì comincerà a lavorare in banca. Alla ripresa degli allenamenti si aggregherà al Mendrisio, in Prima Lega. Il quarto livello della citata piramide. «Diciamoci la verità, per come è messa attualmente la Challenge ho fatto la scelta giusta. Il calcio mi ha dato moltissimo, ma non abbastanza per godermi subito la pensione. Ho dimostrato un certo realismo pensando al mio futuro». Il futuro di Rey è iniziato nel passato, con l’addio al Lugano e l’approdo a Chiasso. «Da quel giorno ho cominciato a cercare un lavoro al 50% per facilitare la mia transizione. Purtroppo, durante la mia parentesi in rossoblù non ho trovato nessun datore di lavoro disposto a concedermi un impiego a tempo parziale, permettendomi così di svolgere la mia attività di calciatore. Il Mendrisio si è fatto avanti. Grazie al presidente Pellegrini posso beneficiare di questa offerta combinata, chiamiamola così».

Rey non usa giri di parole: le condizioni salariali in Challenge sono quelle che sono. «Ad eccezione delle prime tre-quattro squadre, a mio avviso non ha senso fare professionismo in B. Mancano i mezzi». Eppure, spesso sono proprio le condizioni precarie a favorire un determinato tipo di carriera. «In effetti la realtà svizzera ti permette di giocare ad un livello eccellente e allo stesso tempo di continuare con gli studi. Io l’ho fatto, ma proprio per questo non volevo andare avanti fino a 35 o 36 anni. Mi premeva cominciare a fare esperienza anche nel mondo lavorativo, onde evitare di ritrovarmi senza sbocchi».

Antoine è soddisfatto del suo percorso e non rimpiange nulla. «Ho vissuto di calcio per diversi anni, realizzando tutti i miei sogni di bambino tranne quelli impossibili. Come giocare per il Milan o il Liverpool. Mi tengo stretto ogni istante, in particolare la promozione e la salvezza con il Lugano, oltre alla finale di Coppa Svizzera».

Lunedì, appunto, si aprirà un nuovo capitolo. «Se sono emozionato? Un po’, sì. Paragonerei le mie sensazioni a quelle che provai quando lasciai il Losanna per il Lugano. Entrerò in uno spogliatoio nuovo, mi servirà un po’ di tempo per abituarmi».

Una questione di prospettive

Tito Tarchini è vicino ad un anniversario importante. Il prossimo giugno festeggerà i suoi primi cinque anni senza professionismo. Era l’estate dei Mondiali in Brasile e questo ragazzone dai modi eleganti salutò il Chiasso (in Challenge) per abbracciare il nuovo Bellinzona, ripartito dalla Seconda Lega e nel frattempo risalito fino alla Promotion League. «Ma un giorno, forse, con il Bellinzona torneremo in B e allora dovrò fare il cammino inverso» spiega il difensore, fresco di laurea in economia. Tarchini ha 29 anni e ricorda sorridendo quella decisione. La domanda, oggi come allora, è sempre la stessa: perché salutare il calcio che conta così giovane? «In effetti avevo appena 24 anni, sicuramente avrei potuto proseguire in Challenge. Ho messo in campo la mia concretezza, cercando di guardare più in là. Le mie chance le avevo avute, ero deciso a riprendere gli studi e il Bellinzona aveva messo in piedi un progetto serio. Mi sembrò la soluzione migliore possibile, tant’è che se tornassi indietro rifarei la stessa cosa».

Tarchini è cresciuto nel Lugano, club con cui ha esordito in prima squadra nella stagione 2006-07. Nell’annata successiva è stato messo al confino dalla dirigenza – era l’epoca di Teti e Pastorello – per il mancato accordo sul rinnovo contrattuale. «Mi avevano offerto circa 800 franchi al mese» prosegue Tito. Una miseria. Ecco allora lo Zurigo, pronto ad offrigli un triennale. Accordo trovato all’istante. «Ma non firmai per i soldi» ribatte il diretto interessato. «Firmai con gli zurighesi perché mi offrivano una possibilità concreta. Quella di giocare ai massimi livelli. E le cose inizialmente andarono bene, tant’è che bruciai le tappe e venni inserito quasi subito in prima squadra. Poi gli orizzonti cambiarono e me ne tornai in Ticino. Ricordo che al Letzigrund condividevo lo spogliatoio della Under 21 con Mehmedi e Rodriguez».

In totale Tarchini ha messo assieme 3 partite in Super League e 123 in Challenge. Poche, per un talento puro. «Ho pensato al futuro e a quello che avrei fatto dopo il calcio» conclude. «Una questione di prospettive. In B, da noi, puoi andare avanti anche fino a 35 anni. Ma poi? Gli stipendi non ti permettono certo una vita alla Cristiano Ronaldo, anche se io a Chiasso stavo bene. In generale è un campionato che va benissimo per i giovani: possono mettersi in mostra e attirare i club grossi. Nel mio caso, quel treno era già passato».