«Cologna è un fenomeno, un grande come Federer»

Uno sportivo (o una sportiva) si costruisce giorno per giorno. Attraverso tante sconfitte e qualche vittoria. Quello che più conta è l’amore per il proprio sport. Ce lo ha detto Natascia Leonardi Cortesi, bronzo olimpico con la staffetta del fondo a Salt Lake City nel 2002.
Nella tua carriera ci sono state quattro edizioni di Giochi olimpici. Ce le puoi ricordare?
«Ho debuttato ad Albertville nel 1992. Dalla prima esperienza ti aspetti tanto. E non sempre ricavi quello che desideri. Mi è restata un po’ di amarezza. Un infortunio mi ha impedito di andare a Lillehammer nel 1994, in Norvegia. Paese magico per noi fondisti. Poi c’è stata l’edizione di Nagano ‘98. Ero l’ultima staffettista ed ero lanciata verso il bronzo. Nello sprint finale sono stata beffata da Stefania Belmondo. È stato difficile digerire quel quarto posto. Quattro anni dopo mi sono presentata a Salt Lake City. E lì si è realizzato il sogno. Anzi, qualcosa di più grande. Il podio. Ancora oggi, quando ci penso, mi emoziono. A Torino, nel 2006, si è chiusa senza exploit la mia avventura olimpica».
Il fondo è uno sport individuale, ma con la staffetta entra in gioco la squadra. Cosa ricordi del bronzo a Salt Lake City?
«Andrea Huber, Laurence Rochat, Brigitte Albrecht-Loretan ed io non eravamo tra le favorite per salire sul podio. Però è successo. Chissà, forse era il segno del destino per restituirci quanto avevamo perso in Giappone quattro anni prima. In un primo tempo non ci avevamo pensato, poi ci siamo accorte che rappresentavamo quattro realtà della Svizzera: quella tedesca, quella romanda, i Grigioni e il Ticino. Ci sono stati grandi festeggiamenti. Per me, bedrettese trapiantata a Poschiavo, una festa doppia».
Il fondo ti ha fatto gioire, ma nel corso della tua lunga carriera hai anche sofferto parecchio...
«È vero, ma alla fine è anche bello ricordare i momenti più felici. E io, che ho sempre avuto il culto dell’allenamento, non posso non ripensare alle persone che mi hanno fatto crescere: mio padre Florino, Ortensio Bassi, Michel Antzenberger e Ulf Morten. I primi due mi hanno fatto amare questa disciplina di fatica e sofferenza. Il francese e il norvegese sono stati gli allenatori che mi hanno permesso di compiere il salto di qualità. Ulf, in particolare, era riuscito a capire quali fossero le mie caratteristiche. La sua difficoltà era quella di frenarmi quando era necessario».
Quando hai deciso di mettere fine alle competizioni?
«Ufficialmente non l’ho mai fatto. Mi sono dedicata per diversi anni alle gare della World Loppet. Poi, complice mio marito (ndr: Reto), mi sono appassionata allo sci alpinismo. Nel 2005 ho vinto la Mezzalama. Nel 2006, dopo i Giochi di Torino, sulle pendici del Monviso, ho conquistato il titolo mondiale di vertical-race succedendo nell’albo d’oro a Cristina Moretti. Di gare di vario genere ne ho fatte diverse fino al 2010. Poi i miei interessi si sono spostati dall’agonismo alla formazione e alla promozione del fondo».
Da sportiva d’élite sei insomma diventata allenatrice...
«In parte, ma non solo. Sono diventata maestra di sci a Pontresina e personal-trainer. E mi sono anche occupata della promozione di viaggi legati al fondo nei paesi scandinavi e in Russia. Ho pure imparato il russo. Una lingua in più da aggiungere ai nostri quattro idiomi nazionali».
E, nel frattempo, è cresciuta la passione per la montagna...
«A dire il vero, quella c’è sempre stata. Nel 2002, proprio nell’anno della mia medaglia olimpica a Salt Lake City, c’erano stati i festeggiamenti per l’Anno internazionale della montagna. Ricordo che mi avevano regalato una guida. Anche quel libro ha contribuito a rafforzare la mia passione per le cime. Ho scalato il Monte Rosa, La Dente Blanche, il Pizzo Badile (al confine con la Bregaglia) e diverse altre montagne».
Qual è il tuo rapporto con l’alpinismo?
«Le montagne che ho scalato, inizialmente non richiedevano alte qualità dal punto di vista tecnico. Ci volevano piuttosto una buona condizione fisica e, naturalmente, un po’ di coraggio. La condizione atletica c’era. Ad infondermi il coraggio, oltre a mio marito, ci ha pensato Romolo Nottaris, uno che di montagne ne sa parecchio».
La montagna che più ti ha affascinato?
«È difficile dirlo. Forse l’Elbrus, le cui vette sono in territorio russo. Lo dico perché la cresta principale del Caucaso si trova al confine tra la Russia e la Georgia. L’Elbrus è la cima più alta in Europa».
Torniamo al fondo. Quelle di Pechino sono le ultime Olimpiadi di Dario Cologna...
«Con Roger Federer, Cologna è uno dei grandi ambasciatori dello sport svizzero. È un fenomeno. Come Simon Ammann, pure presente a Pechino, Dario ha vinto quattro ori olimpici. So che si è preparato bene. Ci tiene a chiudere in bellezza la sua straordinaria carriera. Io glielo auguro di cuore. Ma quello che più conta è che continui ad amare il fondo. Sul piano agonistico non ha più nulla da dimostrare. Per me resta un testimonial eccezionale per il nostro sport».