«Da Tomba al Sestriere, vi racconto il mio slalom»

I paletti rossi e blu. Che, poi, sono anche quelli di una carriera intera. E della vita. Giorgio Rocca, un Coppa del Mondo di specialità in bacheca, 22 podi, oltre a tre bronzi iridati, li ha affrontati senza paura. A volte cadendo, a volte tagliando il traguardo prima di tutti. Una curva dietro l’altra. «Slalom», non a caso, è il titolo della biografia appena data alle stampe.

Partire dal titolo dell’opera, scritta assieme all’amico ed ex giornalista Thomas Ruberto, è inevitabile. Il riferimento non è alla sola disciplina prediletta. La sua è una metafora per certi versi esistenziale. Vero?
«Proprio per questa ragione le prime pagine sono dedicate all’infanzia e all’adolescenza del sottoscritto. L’inizio di una serie di alti e bassi che, appunto, hanno caratterizzato la mia carriera. Una carriera nata da un impulso genuino: Giorgio, il ragazzino, che sognava di diventare come Alberto Tomba. E che in parte ci è riuscito».
È un libro dedicato soprattutto ai giovani, dunque?
«Lo è in molti aspetti. Perché il messaggio forte è rivolto a loro. Vorrei che capissero che la volontà può fare la differenza più del talento o dei soldi. Un atleta, insomma, difficilmente si forgerà o avrà successo senza determinazione. O se rinuncerà all’impegno quotidiano. Cambiando prospettiva, è un’opera interessante anche per chi - come me - è genitore. E, in questo ruolo, si adopera per far comprendere che tante soddisfazioni sono figlie dei sacrifici. Non fini a se stessi, ma messi a disposizione di una passione. Del proprio cuore, dunque. In questo modo è altresì possibile dare il giusto peso alle vittorie. Personalmente, al singolo risultato ho sempre anteposto la visione e la gratificazione d’insieme. Mia e per i miei genitori, ripagati dopo tanti e ripetuti sforzi».
Sono diversi i fil rouge che albergano il suo racconto. Uno si snoda attorno agli infortuni che hanno segnato la sua carriera. Ma è così sbagliato affermare che quello più significativo non riguarda tanto lei, quanto suo padre?
«In effetti è una chiave di lettura. Papà Carlo, quando era giovane e lavorava come operaio, fu vittima di un grave incidente. Una gru gli schiacciò una gamba contro una parete e l’amputazione di una parte del piede non poté essere evitata. Trascorse due anni in ospedale ma non si diede mai per vinto. E a 35 anni, con me piccolo, imparò persino a sciare, accompagnandomi poi ovunque. La sua forza e la sua serenità, inconsciamente, sono state fondamenta sulle quali costruire una carriera da atleta di alto livello».
E pensare che il suo esordio in Coppa del Mondo, nel gigante di Flachau del 6 gennaio 1996, fu tremendo. Per due ragioni. Da un lato il ginocchio destro andato in frantumi, dall’altro l’aver fallito di fronte al suo idolo di sempre: Alberto Tomba.
«Farmi male subito, in una realtà in cui ero stato proiettato all’improvviso e dopo alcuni risultati clamorosi in Coppa Europa, fu una fortuna. L’aver solo assaggiato quella dimensione, la Nazionale A in cui per altro giostrava il mio idolo di sempre, mi lasciò una fame incredibile. Non potevo accettare che tutto finisse dopo mezza manche di gigante».
Nel gennaio del 1999, infatti, arrivò il primo podio in CdM. Il primo di tanti squilli nel Circo bianco. Quanto contò la sua forza mentale?
«Fu determinante. Ricordo ancora le parole del dottore della Nazionale, Herbert Schoenhuber. A fronte di un menisco distrutto, non era certo che sarei riuscito ad arrivare alle Olimpiadi del 2002. E invece, anche e soprattutto grazie alla testa e alla gestione del mio fisico, nel 2003 vinsi la mia prima gara in CdM - a Wengen - e di seguito affrontai altre sette stagioni».
Stagioni scandite dal costante raffronto con Tomba, nel testo e - quindi - lungo la sua carriera, altro leitmotiv. In che misura la sua consacrazione sportiva coincise con il definitivo allontanamento da quest’ombra?
«Non ho mai nascosto la mia stima per Alberto. Ripeto: insieme a Pirmin Zurbriggen, è stato il mio idolo assoluto. L’esempio da seguire. Ciò detto, Rocca non era Tomba. Né a livello caratteriale, né sul piano della preparazione delle gare. Men che meno nell’elaborazione dell’insuccesso. Di qui, alla lunga, una certa insofferenza personale per un paragone sbagliato. E c’è voluto tempo, tanto tempo, per scrollarmi di dosso questa etichetta. Scomoda ma anche lusinghiera. Faccio un esempio: non dimenticherò mai la stagione 2005-06, quando - a fronte dei diversi successi in CdM - il gestore degli impianti di Livigno mi disse che i frequentatori delle piste si fermavano appositamente per guardare le mie manche alla tv. Come era stato per Tomba prima di me».
Veniamo a sabato 25 febbraio 2006. Una data e una tappa della sua carriera che sono estrapolate dal resto dei capitoli. Quel giorno si corse lo slalom delle Olimpiadi casalinghe, al Sestriere; una gara a cui arrivava da grande favorito ma che durò solo 34 secondi. Niente medaglia d’oro e una domanda, che chiude la sua biografia: «Per quanto tempo ti rimarrà nel cuore una simile delusione»?
«Non ho una risposta. Non ancora perlomeno. È una gara che mi è rimasta lì, sul gozzo. Rosico tutt’ora, anche se il tempo rimane buon anestetico. Per come stavo sciando in quel periodo, e considerate le caratteristiche del pendio, ero convinto di poter vincere. Una sensazione che, forse, non avevo mai provato in carriera. Mi sentivo quasi imbattibile. E invece no, sono caduto come uno stupido, senza nemmeno terminare una manche davanti alla mia gente. Non ho così potuto dimostrare a me stesso e al mondo dello sci che se lo vuoi fortemente, con il lavoro, puoi raggiungere i traguardi più ambiziosi. Insomma, l’insegnamento che sottolineavo in apertura».
Ebbe però modo di rifarsi, e alla grande, solo poche settimane dopo. Conquistando la Coppa del Mondo di specialità. Dopo una curva sbagliata, eccone una totalizzante.
«E infatti è l’unico trofeo che custodisco gelosamente e che, sì, riassume il significato profondo delle vittorie e delle sconfitte della mia carriera. Per farlo mio ho impiegato tanti anni. Un percorso lungo, che mi è servito per calibrare al meglio fisico, testa e - di riflesso - la gestione di più prove. Quella parte di saggezza, purtroppo, era venuta meno alle Olimpiadi. A differenza dei Giochi, però, in Coppa del Mondo devi competere con più avversari. Non sei il più bravo solo una volta, ma lungo un’intera stagione».