L’analisi

L’epoca d’oro dello sci svizzero, ieri molto più che domani

Il dominio rossocrociato ai Giochi ha riportato alla mente i fasti degli anni Settanta e Ottanta - Ma i successi del presente rischiano di non incidere come allora sull’immaginario e le abitudini collettive - Grégory Quin: «Effetto Odermatt? Forse nella Svizzera centrale, questo sport però è in perdita di velocità»
Medagliati rossocrociati a confronto: da sinistra Bernhard Russi, Lara Gut-Behrami, Vreni Schneider e Marco Odermtt.
Massimo Solari
17.02.2022 06:00

Beat Feuz come Bernhard Russi. Lara Gut-Behrami dopo Michela Figini. Marco Odermatt, il nuovo Pirmin Zurbriggen. I paragoni, in queste ore, si sprecano. Lo sci alpino svizzero è il grande dominatore dei Giochi invernali 2022. Con le sue sette medaglie. Per altro parziali. Pechino, grazie alle emozioni forti, fortissime provate e trasmesse dagli atleti rossocrociati, appare più vicina. Persino più familiare. È la magia dello sport, o meglio di uno sport - lo sci - che da decenni oramai nutre l’immaginario collettivo. Simbolo fra i simboli elvetici. Eppure, per quanto clamorosi, i risultati ottenuti dalla nostra delegazione rischiano solo di inebriare la popolazione svizzera. Non di cambiarla, come avvenuto invece in passato. Quando, cioè, i successi così come le sconfitte erano stati in grado di influenzare le abitudini della massa, intessendo un intimo rapporto anche con la strategia politica del Paese.

Concorrenza elevata

«Negli anni Ottanta abbiamo conosciuto degli effetti differenti. Indubbiamente più forti» sottolinea Grégory Quin, storico e ricercatore all’Università di Losanna. «Identificarsi nei campioni elvetici dello sci alpino era più semplice. Non da ultimo perché il loro volto era ricollegabile a questa o quella stazione di risalita». Quin pone l’accento anche su un altro aspetto: «Quarant’anni fa la pratica dello sci, a livello amatoriale e turistico, era vissuta diversamente. La settimana di vacanza non concedeva, per modo di dire, distrazioni. Si sciava dal lunedì alla domenica. Oggi, per contro, se il meteo è così così si opta per una racchettata, magari per le terme. Ecco perché, in questa fase, trovo molto difficile che delle imprese sportive fungeranno da chiaro incentivo sul piano popolare. Senza dimenticare che sciare, ora, è molto più caro che un tempo». I dati, al proposito, non mentono. L’ultimo rapporto dell’Ufficio federale dello sport sull’attività e gli interessi della popolazione svizzera attesta una leggera erosione. Tra i residenti over 15, il 34,9% dichiara di praticare lo sci. Quarta attività più menzionata dopo le camminate/escursioni in montagna, il ciclismo e il nuoto. A differenza delle concorrenti sul podio, lo sci è però l’unico ad aver perso terreno nel periodo 2014-2020 (-0,5 punti percentuali). «Lo sci è diventato uno sport fra tanti» conferma Quin. «Rimane d’importanza nazionale, certo, e pure seguitissimo, ma un bimbo che deve scegliere da dove iniziare sovente guarda anche altrove. E non credo che la causa principale sia da ricondurre alle discipline sorelle, dallo snowboard alle mode più recenti. La concorrenza vera è generata da altri settori. Per tacere della diminuzione dei campi scolastici invernali, che a sua volta sta contribuendo ad affievolire la pratica dello sci».

Il flop del 1964 e la rinascita

Gli esperti parlano di «banalizzazione dello sci». Figlia, appunto, della concorrenza. Ma altresì, guardando all’élite, di una scelta di tipo politico. Basti pensare che Swiss Olympic sostiene ad alto livello tutte le sue federazioni membro. E sono circa una novantina. Per dire: la Norvegia, che giganteggia nel medagliere di Pechino 2022 e presenta una demografia simile a quella elvetica, preferisce concentrare i suoi sforzi su una decina di sport. Comunque, non è sempre stato così. Anzi. Ci volle il fallimento di Innsbruck, ai Giochi del 1964, per dare una sterzata alla strategia rossocrociata. In Austria non arrivò alcuna medaglia. Zero. E a Palazzo federale il flop non venne preso bene. Un dramma.

Al Consiglio nazionale, per esempio, vennero depositate diverse mozioni attraverso le quali si chiedeva al Dipartimento militare di sostenere lo sport di punta. Eccola la breccia fondamentale, nella quale s’incuneò il concetto di professionismo. Necessario per eccellere: sia per gli atleti, sia a livello di staff tecnico. Negli anni successivi spuntarono non a caso importanti centri d’allenamento. La formazione e la preparazione furono consolidate. E, come d’incanto, iniziarono a piovere le medaglie. Da Sapporo 1972 all’apoteosi di Calgary 1988. Da un lato dieci metalli, sei dei quali nello sci alpino, con in particolare gli ori di Bernhard Russi e Marie-Theres Nadig. Dall’altro quindici podi, con gli sciatori assoluti trascinatori: ben undici le medaglie conquistate, grazie a Vreni Schneider, Michela Figini, Brigitte Oertli, Maria Walliser, Pirmin Zurbriggen, Peter Müller e Paul Accola. La Svizzera era diventata una super potenza, come certificarono pure i Mondiali casalinghi di Crans-Montana (14 medaglie su 30!), premiando le scelte strategiche e gli investimenti degli anni precedenti. Il picco fu trasversale: tesserati, risultati sportivi e commercializzazione. Con l’avvento del ricercatissimo berretto della Credit Suisse, le tute gialle con i buchi o ancora i caschi ovomaltinati.

Campioni difficili da sfruttare

Dopodiché, fisiologica, la discesa. «La tendenza - ribadisce Grégory Quin - è chiara: gli sciatori stanno calando in proporzione. E non credo che le attuali Olimpiadi muteranno tale inerzia. Al massimo, la freneranno. Magari con qualche sussulto in termini locali. Al proposito potrebbe essere interessante osservare e studiare quando accadrà a breve termine agli impianti nidvaldesi o della Svizzera centrale, associabili a un personaggio come Marco Odermatt. Però ripeto: ho l’impressione che questo genere di binomio “win win” sia cessato agli inizi degli anni Duemila». Difficile, d’altronde, sfruttare - anche in chiave turistica - figure come Beat Feuz o Lara Gut-Behrami, che in Svizzera nemmeno ci vivono. «Se a livello popolare incide la banalizzazione dello sci, ai vertici è l’internazionalizzazione della disciplina - fatta di continui spostamenti - a impedirle di agire in profondità. E di lavorare, come in passato e al netto di uno spettacolo che continua ad avere grande audience, sull’immaginario e la cultura delle persone comuni» indica Quin.

Dopo essersi schiantata a più riprese, la Svizzera e le sue candidature a ospitare i Giochi invernali potrebbero tuttavia beneficiare dell’«effetto Pechino 2022». O è chiedere troppo? «Potrebbe accadere, sì» riconosce il nostro interlocutore. Per poi precisare: «Il campione, da solo, non può fungere da “game changer”. Il fattore principale risiede nell’onestà del progetto sottoposto ai cittadini. Con le manie di grandezza, lo dice la storia, ci siamo fatti male a più riprese. Serve dunque puntare sull’esistente o sul miglioramento di infrastrutture (impianti o collegamenti) delle quali beneficeranno un domani coloro che pagano le imposte. Insomma, vanno raccontate due storie in parallelo: i progressi trasversali che verrebbero garantiti dall’organizzazione di un grande evento e le emozioni che potrebbero essere generate dai successi degli atleti svizzeri, a maggior ragione se entro i confini nazionali».

Le guerre mondiali e il peso sul made in Switzerland

La Svizzera non è sempre stata una nazione sciistica. Le Alpi, certo, hanno favorito questa trasformazione. Ma, prima ancora, è stato necessario ispirarsi ad altri. Ai norvegesi, per esempio. La tecnica del Telemark vi dice qualcosa? Ecco. Non a caso furono proprio degli studenti nordici a sdoganare alle nostre latitudini lo sci in quanto attività sportiva. Siamo agli inizi del diciannovesimo secolo e servono dei monitori stranieri per insegnare agli svizzeri come scivolare giù dalle montagne. Gli studi di Grégory Quin hanno inoltre fatto luce sull’emergere delle competizioni. Di nuovo, grazie a correnti settentrionali. A fondare i primi sci club in Svizzera toccò infatti ai britannici. Spianando di riflesso la strada all’agonismo. Esatto, un po’ come avvenne con il calcio. Le spinte in questione, dunque, stimolarono la nascita dell’industria elvetica. Artigiani e pionieri, antenati anche, di realtà affermatesi più tardi, come ad esempio il fiore all’occhiello Stöckli.

L’avvento dei conflitti internazionali e la conformazione geografica del nostro Paese fecero il resto. Permettendo allo sci di compiere un ulteriore passo avanti. Anche se, in questo caso, per necessità pratiche. A contribuire allo sviluppo dell’industria locale fu in effetti la Prima guerra mondiale e - al netto del suo ruolo neutrale - la mobilitazione dell’esercito svizzero. Il territorio andava difeso. E così le sue frontiere montagnose. Di qui l’urgenza di disporre di truppe capaci di spostarsi rapidamente anche in altura. Sulle creste innevate, sì. I fabbricanti indigeni vennero per questa ragione investiti di una responsabilità non indifferente: non far mancare ai militari rossocrociati il materiale utile per muoversi in vetta. Una volta chiuse le ostilità, ha ricostruito il ricercatore dell’Università di Losanna, migliaia e migliaia di paia di sci vennero abbandonate nelle valli svizzere. E la loro presenza in massa registrata in numerose stazioni del Paese testimonia indirettamente la volontà di promuovere lo sport agli occhi della popolazione. Per vedere lo sci alpino protagonista ai Giochi olimpici bisogna tuttavia attendere Garmisch 1936. A ridosso di un’altra guerra, già. Il secondo «acceleratore mondiale» con effetti sul piano locale. In merito, Grégory Quin ha appurato come l’assenza di turisti esteri ravvisata dagli albergatori svizzeri dal 1939 si tradusse in una campagna di promozione su larga scala, indirizzata ai residenti. A loro, nel dettaglio, ci si rivolse per incitarli ad assaporare le montagne di casa sugli sci. E non è un caso che proprio al periodo 1942-1943 risale l’invenzione dei campi di sci per le scuole. Esperienze, queste, finanziate dallo Sport-Toto e dalla Confederazione. E, di riflesso, inserite nelle agende dei diversi governi cantonali. Lo sci, gradualmente, abbraccia così la quotidianità di bimbi, adulti e famiglie. Su più livelli: dalle settimane bianche a fini educativi, passando per il passatempo nei weekend, sino alle tv accese sulle prove olimpiche.