Paso doble

Storie memorabili di un autore che amava il calcio e il tabacco

Sono trascorsi venticinque anni dalla scomparsa di Osvaldo Soriano, una delle penne più brillanti della letteratura sudamericana
Il giornalista e scrittore argentino Osvaldo Soriano aveva spezzato il tabù secondo cui il «fútbol» non fosse degno delle attenzioni dei letterati. © KEYSTONE/Brigitte Friedrich
Stefano Marelli
29.01.2022 06:00

«Estimado señor Arpino, gli amici mi dicono che in un piccolo club di Buenos Aires, l’Argentinos Juniors, c’è la salvezza del Torino. Si chiama Diego Armando Maradona, ha 17 anni ed è il più grande giocatore (anche se è basso di statura) degli ultimi 30 anni, costa credo 5 milioni di dollari. Se il Torino ha quei soldi è salvo. Poi non dite che non vi avevo avvertito». La lettera destinata al grande romanziere italiano - vergata all’inizio del 1978 - dimostra almeno tre cose. La prima è che Osvaldo Soriano amava il calcio ancor più dei libri, e ne capiva parecchio. La seconda è che, come molti dei suoi indimenticabili personaggi, si portava appresso una follia geniale: Arpino infatti, pur nutrendo una vaga simpatia per il Toro, era juventino, e probabilmente è in bianconero che avrebbe voluto veder giocare El Pibe, più che in maglia granata. Infine, Soriano non poneva limiti al campo del possibile: in Italia ancora per un paio d’anni l’importazione di calciatori sarebbe stata proibita, ma se anche le frontiere fossero state aperte, mai il Torino avrebbe potuto sostenere una spesa simile. E infatti, quando il veto cadde, il massimo che il presidente Orfeo Pianelli poté regalare ai tifosi fu il terzinaccio olandese Michel nomen omen Van de Korput.

Il capolavoro dell’argentino
Arpino era stato l’unico in Italia ad accorgersi di «Triste, solitario y final» - il capolavoro di Soriano stampato da Vallecchi nel 1974 - e l’aveva recensito su «La Stampa» confessando di essere stato messo knockout dall’idea del collega argentino di ridar vita a Laurel e Hardy e a Philip Marlowe, il detective de «Il grande sonno» e di altri racconti scaturiti dalla penna di Raymond Chandler. Soriano, venuto a conoscenza della cosa solo tre anni più tardi, gli aveva scritto per ringraziarlo e ne era scaturita un’amicizia sincera, fatta di confidenze, critiche al mondo editoriale e soprattutto dissertazioni sul calcio, mondo magico che amavano ancor più dei distillati e che non avevano esitato a considerare materia narrativa, spezzando il tabù secondo cui il fútbol non fosse degno delle attenzioni dei letterati.

Arpino infatti - che aveva vinto Strega e Campiello e che con «Il buio e il miele» aveva fornito a Dino Risi la base per «Profumo di donna» - per quei tempi con un coraggio da torero aveva scritto pure «Azzurro tenebra», romanzo costruito attorno al fallimentare Mondiale 1974 della Nazionale azzurra.

Tra realtà e leggenda
Soriano il calcio invece l’aveva perfino praticato - senza troppo sfigurare - finché non si sbriciolò un ginocchio. Al seguito del padre ispettore delle Obras Sanitarias (la rete nazionale di distribuzione idrica) crebbe palleggiando in ogni angolo della provincia argentina, dall’estremo nord alla Patagonia, conoscendo eroi delle serie minori che qualche anno più tardi prenderà a modello per cesellare i poetici e quasi sempre sfortunati protagonisti delle sue storie, a cavallo dello sfumato confine fra realtà e leggenda. Nel campionario umano plasmato da Soriano, fatto di artisti, aviatori, puttane, pugili, cantanti di tango e comici caduti in miseria, non sono affatto rari i calciatori: dal Gato Diaz, anziano portiere chiamato a parare il rigore più lungo del mondo (calciato una settimana dopo essere stato decretato) al Mister Peregrino Fernandez, pìcaro del mondo del pallone nell’Argentina peronista, eternamente divisa fra grandeur e miseria.

Il tema degli oppressi
Centrale nell’opera di Soriano fu pure il tema degli oppressi, che trattò in svariati modi ma che, parlando di fùtbol, trovò la sua più felice declinazione quando El Gordo, visionario hors catégorie, non soltanto si inventò un’edizione della Coppa del mondo mai disputata - quella del 1942- ma addirittura la fece vincere alla rappresentativa degli indios mapuche, capace di sconfiggere in finale una selezione di soldati del Terzo Reich. La Coppa Rimet, però, non fu mai consegnata al capitano dei nativi, perché a farla sparire ci pensò il figlio del bandito Butch Cassidy, arbitro armato di rivoltella di tutte le partite di quel Mundial immaginario. L’idea, traslata in mokumentary nel 2011 dai registi italiani Garzella e Macelloni, era talmente strampalata da risultare credibile. Testimonianze fittizie e filmati artificiosamente invecchiati davano al film una certa autorevolezza, e non furono pochi a convincersi che quel torneo ebbe davvero luogo: alcuni famosi giornalisti militanti, incapaci di fiutare l’inganno, si profusero in filippiche e pistolotti affinché la FIFA desecretasse i documenti relativi al «Mundial dimenticato» e riconoscesse finalmente il titolo iridato ai nativi patagoni.

Censura e persecuzione
Del resto, di politica, oppressione, censura e persecuzione lo stesso Soriano se ne intendeva, eccome. I caustici pezzi che scriveva sui quotidiani argentini negli anni ’70 vennero sempre meno tollerati, e gli editori, pur continuando a corrispondergli il salario minimo, gli permettevano di pubblicare ben poco, quasi nulla. L’aria per lui si fece pesante, finì nella lista nera del generale golpista Videla e un bel giorno, a 34 anni, decise di lasciare il Paese imbarcandosi alla volta dell’Europa col pretesto di coprire un match che il pugile Carlos Monzon, eroe nazionale, doveva disputare in Germania. Soriano comprò un biglietto di sola andata, e poté tornare in Argentina soltanto sette anni più tardi. Il carteggio con Giovanni Arpino, fattosi sempre meno formale (l’estimado señor Arpino divenne presto querido Giovanni) lo intrattenne infatti da Bruxelles e Parigi, dove per sopravvivere faceva affidamento sugli amici e sulla rete di sostegno agli esuli. I pochi soldi che riusciva a tirar su li spendeva in costosissime telefonate intercontinentali per conoscere i risultati delle partite del San Lorenzo, la sua squadra del cuore. Materialmente sono anni di stenti, ma è proprio in quell’epoca che Soriano scrive o progetta i suoi libri migliori, ovviamente critici nei confronti del regime di Buenos Aires, ma comunque ammantati di magia, follia, sogno e paradosso.

Il trasferimento a Roma
Autore ormai affermato e riconosciuto sulle due sponde dell’Atlantico, El Gordo nel 1990 si trasferisce momentaneamente a Roma, ingaggiato dal «Manifesto» per seguire il Mondiale italiano, che racconterà con la solita arguzia e maestria. Settimane ricordate con nostalgia e riconoscenza da chi ebbe il privilegio di frequentarlo in tribuna stampa, nella redazione di Via Tomacelli o in certe bettole di Trastevere dove le notti, fumose e alcoliche, parevano non dover finire mai. Gli ultimi giorni, per evitare che gli sputassero nella trippa, era costretto a giurare ai camerieri di essere uruguayano. Maradona aveva infatti eliminato gli Azzurri in semifinale, e contro gli argentini si era scatenata la caccia all’uomo. A terminare troppo presto fu invece l’intensa vita di Osvaldo Soriano, stroncata un quarto di secolo fa - a soli 54 anni - dal cancro del tabagista, lasciando orfani tutti noi che amavamo i suoi libri e la sua ineguagliata capacità di raccontare - anche grazie al calcio - realtà difficili e contraddittorie. Proprio come avevano fatto i suoi amici Galeano e Fontanarrosa e come continuano a fare - che madre natura li conservi ancora a lungo - Giardinelli e Skàrmeta, tutti intellettuali innamorati del pallone che i sanguinari regimi sudamericani di una quarantina d’anni fa avevano costretto all’esilio.