Tennis

«Le mie sfide con McEnroe e il ricordo di un giovane Federer»

Intervista all’ex campione australiano Paul McNamee, uno dei migliori doppisti di tutti i tempi, incontrato a Melide durante il locale torneo ITF Seniors
Paul McNamee in riva al Ceresio. © CdT/Chiara Zocchetti
Fernando Lavezzo
01.09.2021 17:00

Cinque Slam in doppio, una semifinale in singolare agli Australian Open del 1982, due Davis Cup e tante battaglie con le leggende degli anni Ottanta. Dai campi più prestigiosi del mondo – ha pure diretto gli Australian Open tra il 1994 e il 2006 – Paul McNamee, oggi 66.enne, si è ritrovato a giocare l’ITF Seniors di Melide. Lo abbiamo incontrato.

Signor McNamee, come ci è finito al torneo di Melide?
«Parlerei di tempismo perfetto. Non giocavo da sette anni, il mio ultimo match era stato al torneo seniors di Wimbledon 2014. Ho avuto degli acciacchi, un anno fa mi hanno messo una protesi all’anca e il mese scorso ho deciso di provare a tornare in campo. Cercavo un piccolo torneo per valutare le mie condizioni. Il mio campo base è a Sofia, in Bulgaria, dove vive la mia compagna e dove ho diretto il torneo ATP 250. Guardandomi in giro, ho scoperto il torneo di Melide. È un posto bellissimo, dove io e la mia signora possiamo anche goderci un po’ di relax e vacanza. Siamo stati al Museo Hesse di Montagnola. Meraviglioso. È uno dei miei scrittori preferiti, se guarda nella mia borsa troverà due suoi romanzi in mezzo alle racchette».

Si è posto qualche obiettivo per questo ritorno in campo?
«Se il corpo dovesse rispondere positivamente, potrei partecipare ai Mondiali over 65 di Maiorca, in ottobre. Quello di Melide è il primo torneo ITF Seniors della mia carriera. Mi sento un debuttante di 66 anni ed è un po’ come tornare ai tempi degli juniores, quando venni a giocare nella regione di Locarno e Ascona. Per raggiungere Melide ho preso un aereo, un bus e tre treni. Proprio come facevo a 18 anni per andare a giocare in giro per il mondo. Più divento vecchio, più mi ritrovo a riassaporare sensazioni del passato. Non sono più una star, devo cercarmi gli alberghi da solo. Ma è perfetto così, mi sento di nuovo all’inizio di un grande viaggio».

E poi a Melide c’è la terra rossa, la sua superficie preferita...
«Le ho dedicato un libro, si intitola “Welcome to the dance” e parla della gioia di giocare sulla terra. Da ragazzo, in Australia, non la conoscevo, l’ho scoperta a 18 anni, debuttando al Roland Garros. Persi contro un 41.enne boliviano che mi concesse solo tre game. Rimasi di stucco, ero pur sempre il campione juniores degli Australian Open. In quel momento iniziai a considerare il tennis come una grande metafora della vita. Sulle superfici dure il gioco è lineare. Sulla terra è angolare, variato, romantico. La terra è l’essenza di questo sport».

L’ex campione a Melide. © CdT/Chiara Zocchetti
L’ex campione a Melide. © CdT/Chiara Zocchetti

«Paul McNamee, uno dei più grandi doppisti di sempre». Le piace questa definizione?
«Capisco che la gente mi ricordi per quello, per i miei successi con l’amico Peter McNamara, scomparso nel 2019. La verità, però, è che non mi sono mai considerato un giocatore di doppio. Mi sono sempre sentito un giocatore di tennis. Punto. In ogni torneo a cui partecipavo, prendevo parte sia al singolare, sia al doppio. In singolare ho vinto due tornei ATP, ho raggiunto le semifinali all’Australian Open e sono arrivato 24. nel ranking mondiale. Niente male. Certo, nel doppio sono stato numero uno e ho vinto cinque Slam: tre Wimbledon (uno nel misto con la Navratilova, ndr.) e due Australian Open».

È fiero di quei successi?
«Sì, è stato gratificante, ma a 66 anni ho capito che il viaggio è la cosa più importante. Giocare a Melide o sul centrale di Wimbledon è ugualmente appagante per me. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra orgoglio e umiltà. Molti atleti hanno un problema: credono che i risultati ottenuti in campo definiscano ciò che sono come persone. Io in carriera sono stato più bravo di alcuni avversari e meno bravo di altri. Ma ho sempre fatto del mio meglio. È questo che conta».

Negli anni Ottanta il doppio aveva più rilevanza di oggi?
«La sua reputazione è peggiorata. Mio fratello mi dice sempre di non raccontare in giro che sono stato un giocatore di doppio, altrimenti la gente penserà che non fossi abbastanza bravo per giocare il vero tennis. È un peccato, perché il doppio è importante. Sviluppa qualità diverse e ti insegna il gioco di squadra. Da un po’ di tempo alleno una doppista molto forte, la 35.enne taiwanese Su-wei Hsieh, già numero uno nella specialità e vincitrice di quattro Slam. Normalmente avrei dovuto essere con lei agli US Open, ma viaggiare oltre oceano è complicato».

Quando Martina Navratilova mi propose di giocare con lei in doppio misto a Wimbledon voleva garanzie sulla mia tenuta nervosa

Parliamo di un suo «exploit» in singolare. Wimbledon 1984: John McEnroe vinse il torneo perdendo solo un set. Contro di lei...
«Al primo turno. Quattro anni prima avevo battuto John al Roland Garros, ma nel 1984 a Wimbledon era intoccabile. Ero certo che mi avrebbe distrutto. Dopo aver perso 6-4 i primi due set, vinsi il terzo al tie-break, per poi uscire 6-1 al quarto. Lasciai il campo felice perché non mi aveva umiliato. Pat Cash mi avvicinò in spogliatoio e mi chiese: “Paul, cos’è quel sorriso?”. “Cosa intendi Pat? Mi sembra di aver giocato bene”. “Esattamente. Gli hai strappato il servizio in ogni set. Eppure non è bastato. Paul, hai appena sprecato l’occasione di buttare fuori McEnroe da Wimbledon!”. Pat era molto arrabbiato, e ovviamente perse contro John in semifinale. Però aveva ragione: quel giorno mi ero accontentato di non farmi strapazzare, invece di pensare a giocare per vincere. Da allora non ho più commesso l’errore di prevedere l’esito di una partita prima ancora di scendere in campo».

Che rapporto ha con McEnroe?
«Siamo amici, ha scritto l’introduzione della mia autobiografia. La gente ha una visione distorta di lui. È un po’ matto? Certo. Ma ha un cuore grande e ama il tennis come pochi».

C’è qualcosa degli anni 80 che porterebbe nel tennis di oggi?
«È stata un’epoca affascinante, con campioni quali McEnroe, Borg, Connors, Noah... C’era più cameratismo tra di noi. Ora, nei grandi tornei, i migliori tennisti stanno nella loro cerchia di persone fidate. Ai miei tempi l’atmosfera era più rilassata. Per colpa dei social media, gli atleti di oggi sono costantemente sotto osservazione. Io sono stato in un night club di Londra fino alle 2.00, la notte prima di giocare una finale a Wimbledon. Non era un’abitudine, sia chiaro, ma quella volta capitò. Oggi sarebbe impensabile. È più difficile essere autentici, essere se stessi. Quello che non è cambiato, purtroppo, è che solo i migliori cento giocatori del ranking possono vivere di tennis senza preoccupazioni».

Ci parli di quando vinse Wimbledon in doppio misto con Martina Navratilova nel 1985...
«Mi contattò il suo manager, quel titolo mancava ancora alla sua collezione. Martina aveva dato istruzioni precise: dovevo garantirle che non mi sarei fatto sopraffare dalle emozioni. Assurdo. Come fai a promettere una cosa del genere? È involontario, incontrollabile. Dissi che ero un tipo molto competitivo, ma non potevo fornire garanzie. Alla fine, Navratilova mi diede l’okay. Giocammo gli ultimi tre turni nell’ultimo giorno del torneo, uno dietro l’altro, vincendo sempre al terzo e decisivo set. Ero contento, non ero andato nel pallone e conquistammo il trofeo. L’anno dopo chiesi a Martina se volesse difendere il titolo insieme a me. Declinò, disse che con me aveva dovuto disputare troppi terzi set. Partecipò con Heinz Günthardt e persero in finale».

In termini di romanticismo del gioco, di capolavori dipinti in campo, Roger Federer è stato il migliore, ma alla fine conteranno gli Slam

Lei è stato direttore degli Australian Open tra il 1994 e il 2006, nonché CEO dello stesso major dal 1999. Che esperienza è stata?
«Molto bella, intensa, con tantissime responsabilità. Ci sono tremila persone che lavorano per quello Slam. Dovevo pensare a tutto, ma avevo fatto pratica con la Hopman Cup, di cui sono stato tra i fondatori. In uno Slam succedono mille cose ogni giorno, ma la mia priorità erano i giocatori. Sono sempre stato dalla loro parte. Ricordo un episodio durante la semifinale del 2005 tra Roddick e Hewitt. Faceva caldissimo e Andy lasciò il campo per andare a cambiarsi i calzini, inzuppati di sudore. Era nei guai, avrebbe dovuto chiedere il permesso e rischiava una multa. Forse una sospensione. Lo raggiunsi in spogliatoio, gli dissi che se tornando in campo avesse chiesto scusa all’arbitro, probabilmente la storia si sarebbe chiusa lì. Mi ascoltò e non venne punito».

Che relazione ha instaurato con Roger Federer in quel contesto?
«Un bel rapporto, anche perché lui partecipò sin da giovane alla Hopman Cup. Il suo primo trofeo da professionista fu proprio quello, vinto nel gennaio del 2001 in coppia con Martina Hingis. L’anno seguente Roger mi disse che sarebbe tornato volentieri, ma con un’altra giocatrice: Mirka Vavrinec, da allora sua inseparabile compagna di vita. Agli Australian Open, sotto la mia gestione, Roger ha vissuto momenti intensi, vincendo l’edizione del 2004 e quella del 2006, l’ultima da me diretta. Ma ricordo benissimo anche la semifinale del 2005 persa al quinto set contro Safin, dopo aver sprecato un match-point nel tie-break del quarto».

Eppure lei è stato tra i più critici riguardo al ritiro di Roger dall’ultimo Roland Garros.
«Ero sorpreso, scioccato. Non si fa una cosa del genere nel bel mezzo di uno Slam per poter preparare meglio lo Slam successivo. Roger è un esempio, rappresenta la tradizione. Mi sono messo nei panni del direttore del torneo parigino».

© CdT/Chiara Zocchetti
© CdT/Chiara Zocchetti

L’era dei «Big 3» è finita?
«Sì, almeno a livello di Slam. Roger stesso ha detto che vorrebbe giocare ancora, ma non sa quanto potrà essere competitivo. A 40 anni è comprensibile. Per Nadal il discorso è diverso. Non è ancora fuori dai giochi, a Parigi può vincere ancora un paio di volte e arrivare a 22 Slam. Su chi sia il più forte di tutti i tempi, ognuno ha le sue idee. In questa epoca abbiamo avuto i tre più grandi di sempre e ve lo dice uno che ha incrociato pure un certo Rod Laver. In termini di romanticismo del gioco, di capolavori dipinti in campo, Roger Federer è stato il migliore. Ma per un fanatico della terra rossa come me, Nadal è un maestro assoluto. Detto questo, credo che il primo criterio da considerare per definire il più grande sia il numero di Slam vinti».

A New York Djokovic potrebbe passare in testa con 21...
«È il favorito, ma Zverev, Medvedev e Tsitsipas stanno arrivando. L’ultima grande partita giocata da Novak è stata la semifinale di Parigi contro Rafa. Ha vinto quel Roland Garros e poi anche Wimbledon, ma senza più incantare. A Tokyo non l’ho visto al top. E la pressione per il Grande Slam annuale può pesare. Sarà uno US Open affascinante e tiferò per la mia connazionale Barty. Mi sarebbe piaciuto essere lì, ma sono a Melide e va bene così».