«Neanche un erroraccio arbitrale tolse a Roger il primo titolo ATP»

Julien Boutter oggi ha 46 anni. Ha abbandonato il mondo del tennis da parecchio, in tasca un titolo a Casablanca nel 2002 e - all’apice - il 46. posto della classifica mondiale. La finale giocata a Milano, la prima delle due acciuffate lungo il suo percorso, però non la scorderà mai. Di fronte Roger Federer, il predestinato. A sua volta desideroso di lasciare finalmente il segno nella storia dello sport. Ma probabilmente - anzi quasi sicuramente - inconsapevole che a quella meneghina, avrebbero fatto seguito altre 102 finali vinte. Venti delle quali valide per un Grande Slam. «Non posso andare fiero di quella partita, che ho pur sempre perso» ci confida al telefono, ridacchiando, l’ex tennista francese. «Ad ogni modo, quel che è certo è il legame indissolubile che mi vincola a uno dei più grandi giocatori della storia del tennis. A oggi, il più grande. Il fato ha voluto che il suo contatore si sbloccasse proprio contro di me, vent’anni or sono».
Un servizio per due
Curiosità. Al centro di questo racconto spicca un asterisco. «In effetti - ricorda Boutter - la finale di Milano venne in qualche modo scalfita da un errore arbitrale. E anche piuttosto grossolano. Mi spiego: nel tie-break del secondo set, che poi vinsi, fui io il primo a servire. La terza frazione, dunque, si sarebbe dovuta aprire con Federer alla battuta. Dallo sgabellone, al contrario, la pallina venne assegnata al sottoscritto. Inizialmente rimasi un po’ spiazzato. Ma dal momento che aprire il set decisivo al servizio, di solito, rappresenta un vantaggio, non mi saltò di certo in mente di avvisare l’arbitro. E né lui, né il mio avversario, né qualcuno del pubblico si accorse della svista». Tutto molto interessante. O forse no? Sentite Boutter: «Fu Roger a fare subito il break, scavando di fatto lo scarto che gli permise di aggiudicarsi la sfida. Detto ciò, non ho rimpianti circa quell’episodio. Che, appunto, avrebbe dovuto favorirmi. Il suo valore, insomma, è puramente aneddotico».
«Speravo di innervosirlo»
Negli anni successivi, ad ogni modo, il tema è riemerso a più riprese. «Sì, con Federer abbiamo parlato decine di volte di quella finale. E non solo di quella». Ah no? «Io e Roger ci siamo sfidati tre volte in carriera. A Milano e agli Swiss Indoors di Basilea, sempre nel 2001, fu lui ad avere la meglio. Ma il primo incrocio risale al 1999, quando riuscii a batterlo al Challenger di Grenoble. Ecco: la cosa bizzarra, e che mi ha colpito quando ci siamo confrontati su questi incontri, è che Roger ricordava decisamente meglio l’unica sconfitta. Che evidentemente lo aveva segnato».
E su quella sfida, l’ex tennista transalpino in qualche modo insiste: «Allora mi ero scontrato con un giocatore molto nervoso. Suscettibile. A inizio 2001 a Milano, però, le cose erano già cambiate. Sul piano mentale Federer aveva compiuto uno se non due passi avanti nel controllo delle emozioni. E a dimostrarlo è il trend della finale. In entrata di partita ero infatti riuscito a rubargli il servizio. E, in qualche modo, mi ero illuso di poterlo così spazientire, portando la sfida dalla mia parte. Era pur sempre la mia prima finale, ma la pressione e le aspettative erano tutte per la promessa emergente, incapace sino a quel punto di mettere le mani su un torneo. Ebbene, anche qui le cose non sono andate secondo i piani. Roger si è ripreso subito con due break e i nervi a saltare sono stati i miei. Con tanti saluti al primo set».


Una carriera inimmaginabile
King Roger, lo abbiamo già spoilerato, alla fine trionfò. Dando il la a una delle parabole più romantiche dello sport moderno. Già, ma in campo Julien Boutter se ne rese conto? «All’epoca osservatori e avversari avevano capito di avere a che fare con un talento purissimo. Senza punti deboli, eccetto - come indicato - la testa. Considerate altresì le qualità su ogni superficie, il suo potenziale appariva quindi illimitato. Gli si riconosceva una totalità sino a quel momento mai ravvisata in altri. Da lì a predire la sua scalata verso la gloria, tuttavia, ce ne passa. Qualsiasi esperto, ai tempi, avrebbe probabilmente scommesso sulla sua progressiva ascesa nella classifica ATP, sino al vertice. La vittoria di qualche Slam magari. Proiezioni che oggi, ad esempio, si potrebbero avanzare per Tsitsipas o Zverev. Roger, 20 anni più tardi, ha invece riscritto la storia. Superato i record di Sampras che sembravano irraggiungibili, e trascinato con lui pure Nadal e Djokovic».
E a proposito di Pete Sampras, idolo e modello prescelto proprio da Federer in gioventù: Boutter, nel 2001, comprese che l’allievo avrebbe potuto superare il maestro? «Sì, nella misura in cui - ripeto - ci eravamo accorti che sulla scena era piombato un giocatore senza pecche. Quelle per esempio incontrate da Sampras sulla terra battuta o con il rovescio, a fronte di una risposta in diagonale. Pete, dalla sua, aveva una grande forza mentale. Che, di nuovo, Federer doveva ancora dimostrare di possedere».
Di epoche e campioni
Dal 2001 al 2021 Roger Feder er ha dimostrato questo e tanto altro. In campo e fuori. Facendosi amare per ogni sua sfaccettatura. E, dicevamo in apertura, per la sua eternità sportiva. «Quattro anni fa, complici i primi infortuni di un certo rilievo, in molti davano Roger per finito» conferma Boutter. «Ma al cospetto di giocatori come Federer, che sanno gestirsi alla perfezione, simili speculazioni lasciano il tempo che trovano. L’elvetico, in questo senso, ha due grandi atout: da un lato conosce nei minimi dettagli il proprio fisico, dall’altro ha la fortuna di poter pianificare con una certa serenità la fine della carriera».
Quale sarà l’elemento determinante per dire stop, tuttavia, non è chiaro. «È una cosa che appartiene solo a lui» sottolinea Boutter: «Detto della variabile fisica, potrebbe anche essere una questione di ambizione. Con un ultimo, grande appuntamento ancora nel mirino. Se c’è un aspetto che contraddistingue Federer, e che ho provato in prima persona, è la sua competitività». Vero. Presto o tardi, però, lo strappo - devastante - si presenterà. «Stiamo vivendo il tramonto di un periodo eccezionale» rileva in merito Julien Boutter: «Il terzetto formato da Federer-Nadal-Djokovic è stato capace di gesta clamorose. Mi sento però di affermare che considerazioni simili accompagnano da sempre il tennis. “Non rivivremo più tempi come questi”. Quante volte lo abbiamo sentito? Quando smisero Borg e McEnroe. Dopo di loro però arrivarono Becker ed Edberg. Stesso discorso con Courier, Sampras e Agassi. Seguiti da altrettanti numeri 1 carismatici, come Rios, Kuerten o Hewitt. Questo per dire che la ruota continua a girare e in futuro - forse non fra due anni ma nel 2030 - la scena sarà dominata da nuovi protagonisti assoluti». Sin qui il ragionamento oggettivo. Boutter, ad ogni modo, riconosce la superiorità di alcuni profili rispetto ad altri. «È evidente: l’addio al tennis di Roger segnerà indelebilmente la mia generazione e quella successiva. Per il suo stile di gioco, la sua immagine, la sua grandezza sportiva: elementi che hanno fatto e continuano a fare bene all’ambiente». Sì, anche a vent’anni dal primo, melodioso squillo.