Tennis

«Sono tornato a sorridere e a Basilea mi sono divertito»

Chiacchierata a tutto tondo con Rémy Bertola, che agli Swiss Indoors ha debuttato nel tabellone principale di un torneo ATP perdendo contro lo spagnolo Jaume Munar
Rémy Bertola, a Basilea, ha raggiunto per la prima volta il tabellone principale di un torneo ATP. © Keystone/Georgios Kefalas

L’avventura di Rémy Bertola agli Swiss Indoors si è conclusa contro l’ostacolo Jaume Munar. Prima di perdere contro lo spagnolo il ticinese ha però sconfitto due colossi: Adrian Mannarino (ATP 59) e il n. 77 Quentin Halys. Lo abbiamo incontrato nella pancia della St. Jakobshalle, per una chiacchierata a tutto tondo.

Rémy, partiamo dall’esperienza di Basilea. Come è stato, a livello emozionale, debuttare nel main draw di un torneo ATP e farlo, tra l’altro, in casa?
«Non ho avuto granché tempo per metabolizzare il tutto. Non ho saputo fino a giovedì che avrei giocato. Ero in Sardegna, impegnato in un altro torneo, e speravo in una chiamata da parte degli organizzatori. È stata un’ottima occasione per confrontarmi con grandi giocatori, l’élite di questo sport. Senza pressione, dunque, ho deciso di godermi il momento e provare a divertirmi».

Nel momento in cui superi le qualificazioni ti si aprono delle nuove possibilità economiche, nonché di bottino di punti, importanti. Cambia il modo di vedere le cose una volta entrati nel tabellone principale?
«Faccio un passo indietro. Quando è uscito il sorteggio delle qualificazioni e io ho visto che avrei giocato contro Mannarino mi sono sfregato le mani. Non c’è niente di meglio di pescare una testa di serie, quando ti presenti da “wild card”. Della serie, giochiamocela contro quelli più forti. E ho vinto, sia contro di lui sia contro Halys il giorno dopo. Una volta nel tabellone principale, ho avvertito della tensione. Passare il turno avrebbe fatto rima con un biglietto per l’Australia. Non è andata così, ma l’esperienza è solo positiva. Mi sono migliorato e ho imparato tanto».

La tua crescita è evidente. Ne dà ulteriore dimostrazione il fatto che sei rimasto incollato per gran parte del match a Munar, il numero 42 al mondo…
«È vero. E non era facile. Sapevo che sarebbe stata una partita dura dal punto di vista fisico, la sua arma migliore. Ha giocato un’ora ad un’intensità pazzesca, sbagliando poco. Ragion per cui ora è 42. al mondo e io più dietro. Sono questi giocatori i miei punti di riferimento. Devo lavorare sul fisico perché diventi ancor di più il mio punto di forza».

Abbiamo parlato delle qualificazioni per i tornei del Grande Slam. Hai già piazzato gli obiettivi per il prossimo anno?
«Per un profilo come il mio, che non ha ancora accesso agli Slam, questo è un periodo di tornei a squadre. Ho firmato accordi con due circoli, uno in Italia e uno in Francia. Accordi che rispetterò. Questo mi impegnerà nei weekend, mentre in settimana darò spazio ai Challenger. Tra sette giorni volerò a Monastir, mentre la settimana dopo sarà il turno di Helsinki. Due tornei che potrebbero valere gli Australian Open. Non ho purtroppo fatto un grande inizio anno. Ma, se vogliamo guardare il bicchiere mezzo pieno, l’ho finito davvero in crescendo».

Immaginiamo che preferiresti esordire il primo possibile nel Grande Slam, il che equivarrebbe a centrare Melbourne. Qualora invece dovessi debuttare a Parigi, sarebbe per te una chiusura del cerchio?
«I grandi traguardi sono gli obiettivi di tutti. L’ho sperimentato quando ho avuto l’opportunità di esordire in Coppa Davis nel 2024 in Olanda, oppure quando nel 2023 ho giocato a Basilea per la prima volta. Momenti che fanno sognare. Sì, Parigi sarebbe chiaramente speciale. È li che ho iniziato a giocare. Se ci arrivassi sarebbe l’inizio di una nuova carriera. A livello finanziario le cose cambiano moltissimo. Si comincia a sognare in grande».

Vittorie contro avversari blasonati come quelli che hai affrontato a Basilea possono portare aiuti diretti?
«Trovo faccia tanto la persona, più che il risultato. Ho visto gente fortissima avere problemi con gli sponsor. Penso a Kyrgios, Bublik o Davydenko. In queste ore mi sarò sicuramente fatto notare. Ma punto piuttosto alla costruzione di un’immagine di un ragazzo che si diverte in campo. Giocando però sempre in modo molto serio. Spesso la gente pensa che godersi il momento voglia dire abbassare la guardia. In realtà per avere un’alta intensità bisogna gioire di ciò che si sta vivendo. A inizio anno le cose erano diverse. Alcune dinamiche all’interno del team e nella mia vita privata avevano preso una piega poco salutare. Ho sistemato alcuni aspetti e ho ritrovato il sorriso. Ecco perché negli ultimi sei mesi ho fatto il 90% dei punti di quest’anno».

A proposito di team. Sei accompagnato solo dal preparatore atletico, il che è qualcosa di atipico a questi livelli. Che cosa ti ha portato a prendere questa decisione?
«Non è facile trovare un allenatore. Parliamo di una persona che ti asseconda e con cui devi passare moltissimo tempo insieme. I tennisti sono complicati (sorride, ndr), va trovata la figura giusta. Con Gianluca (Santagostino, ndr), il mio preparatore, abbiamo iniziato una collaborazione partendo da un’amicizia. È un tipo molto in gamba, che studia moltissimo. Prima di arrivare nel mondo del tennis, tre anni fa, apparteneva all’universo del football americano. Con lui mi sento di aver instaurato un equilibrio e voglio procedere con cautela per evitare di rovinarlo. Trovare un allenatore significa inoltre pagare un’ulteriore persona. Senza gli introiti dei tornei del Grande Slam è difficile stipendiare un’altra figura».

Come hai trovato il tuo equilibrio?
«Con Gianluca abbiamo migliorato tanto l’aspetto fisico, arrivando pronti ai tornei. Per farlo, ci siamo concessi anche qualche giorno in più di pausa. Non sono un gran battitore, dunque non faccio punti facili e di conseguenza dispiego tanta energia in campo».

Nel caso in cui avessi vinto contro Munar saresti arrivato intorno alla 200. posizione ATP. Vacherot è riuscito a vincere un Masters 1000 con un ranking simile...
«I Challenger sono un’ottima palestra per arrivare in vetta. Nei grandi tornei entri in partita in condizioni perfette. Sei servito e riverito perché sei la star. Nei Challenger è diverso. Giochi in condizioni difficili e con pochi spettatori. A Basilea ci sono state fino a 6.000 persone a seguire un mio match. Non credo di aver avuto questo pubblico neanche in venti tornei sommati (ride, ndr). Dettagli che ai tennisti con ranking inferiori fanno bene. Ti fanno sentire importante e ti spronano a fare qualcosa in più. Faccio un esempio. Quando sono arrivato a Basilea ho pensato “Wow, qui servire è più facile”. Perché avrebbe dovuto esserlo? La rete è alta uguale e il campo è come tutti gli altri. La verità è che ambienti così ti fanno sentire meglio».

Spesso si sente che i più forti lo sono anche perché sono agevolati. E se così non fosse le cose cambierebbero. Come la pensi?
«Bella domanda. Secondo me Sinner o Alcaraz sarebbero ai vertici comunque. Appartengono a un altro universo. Come Nadal e Roger, per dire. Tanti invece concordano sul fatto che gli organizzatori stiano creando tornei troppo simili tra loro. Tra il 2000 e il 2020 circa, nell’epoca di Roger, le kermesse erano variegate. Le partite di Wimbledon, per dire, in passato duravano anche mezz’ora in meno. Anche la qualità delle palline, dopo il COVID, è calata. Forse a causa di una centralizzazione della produzione... Tant’è che dopo 40 minuti di usura sono da buttare. Per tacere del fatto che sono più lente. Tutto ciò agevola i top players. La diretta conseguenza è che i risultati bislacchi si moltiplicano. Una volta c’erano superfici e condizioni che facevano sì che contro alcuni giocatori perdevi al 100%. Oggi invece non esiste più una partita facile. Te la giochi con tutti».

A proposito del circuito ATP, sei d’accordo che il livello, soprattutto dei giocatori che hanno un ranking dal 50 in giù, sia aumentato?
«Assolutamente sì. Prima era più ovvio il distacco tra chi puntava ad essere professionista e chi no. La verità è che il mondo del tennis si è evoluto. Io ho iniziato a giocare nel periodo di Sampras e dei suoi 14 Slam. Roger allora ne aveva sei o sette. Pareva impossibile che potesse raggiungerlo. E invece in poco tempo la prospettiva è cambiata. Almeno fino a oggi, che se non vinci 10 slam sei considerato un brocco (ride, ndr). Il tennis di oggi è quello della finale del Roland Garros tra Alcaraz e Sinner, per me la migliore della storia. Alcuni potranno dire che è diventato uno sport noioso. Ma ormai è questo. Il serve&volley o lo slice non si vedono più, perché non si possono fare. Questo nuovo tennis, per i giocatori del ranking simile al mio è una sfida. Te la puoi giocare. E magari anche sognare. Al contempo, arrivare al top è cosa per pochi. Non tutti sono disposti a dedicare tutta la propria vita al tennis».