Calcio e politica

Tutte le bandiere del Marocco, il padrone di casa

I Leoni dell’Atlante inseguono una semifinale storica contro il Portogallo - Il percorso di Hakimi e compagni ha avuto il potere di riunire il mondo arabo, esaltandone l’identità e però fungendo da cassa di risonanza al conflitto con Israele: il vessillo palestinese è ovunque a Doha
Il giocatore del Marocco Abdelhamid Sabiri festeggia avvolto dalla bandiera nazionale e di fronte a quella palestinese. © AP/Petr David Josek)
Massimo Solari
10.12.2022 06:00

Doha

A Rabat è scattato l’allarme. Servirebbero più aeroplani per soddisfare la fame di gloria - ai limiti dell’isteria - dei tifosi. Le ultime stime, intanto, parlano di 50mila marocchini a Doha. Basta recarsi al Souq Waqif, sgomitando tra i vicoli del mercato, per avere conferma di numeri e densità. I tifosi dei Leoni dell’Atlante vi hanno oramai stabilito il proprio quartier generale. È il cuore pulsante della capitale. Il cuore dei Mondiali. E la speranza degli organizzatori - mascherata nemmeno troppo bene - è che la selezione di Regragui non arresti la sua incredibile cavalcata. Nel pomeriggio Hakimi e compagni inseguono una storica semifinale - la prima per una formazione africana - contro il Portogallo. E a sostenerli, suggerivamo, non saranno solo connazionali. No, in subbuglio è l’intero mondo arabo. Dal Maghreb al Levante. Per un’identità comune decisa a esaltarsi, oltre gli steccati e le tensioni politiche che da decenni ne segnano la convivenza.

Emblemi a confronto

Il controllo del Sahara occidentale - conteso da Marocco e indipendentisti foraggiati dall’Algeria - non sembra una priorità in queste settimane. Così come il fragile equilibrio diplomatico tra il Qatar e i suoi vicini (con il conflitto in Yemen sullo sfondo e senza dimenticare gli embarghi commerciali del recente passato) è stato rinsaldato dalle sciarpe «rivali» indossate dall’emiro Tamim ben Hamad al-Thani e dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Gli exploit di Arabia Saudita (all’esordio con l’Argentina) e Tunisia (in grado di sconfiggere la Francia) hanno contribuito ad alimentare questa fratellanza. In risposta, tra l’altro, alle veementi critiche occidentali verso la prima Coppa del Mondo ospitata dal Medio Oriente. Critiche ritenute ingiuste e figlie di una forma di razzismo anti-arabo. Ed emblematica, al proposito, è la battaglia delle bandiere. Da un lato quella arcobaleno, simbolo dei diritti LGBTQ+ insieme alla fascia da capitano «OneLove». Dall’altro il vessillo palestinese, presente in ogni angolo di Doha e - per l’appunto - trait d’union panarabo.

Se la FIFA chiude un occhio

Quanto la FIFA si sia battuta per soffocare il primo dei due emblemi, è noto. Che il Mondiale si sia trasformato in una cassa di risonanza del conflitto con Israele, per contro, non appare così problematico agli occhi di Gianni Infantino e soci. L’invito a lasciare la politica fuori dagli stadi è stato sin qui applicato a geometria variabile. E le celebrazioni del Marocco, dopo l’exploit negli ottavi, sono lì a dimostrarlo. I giustizieri della Spagna hanno in effetti deciso di posare davanti agli obiettivi del pianeta con la citata bandiera palestinese, tra l’altro apparsa in diversi impianti durante il torneo al pari della scritta «Free Palestine». Ebbene, a oggi la commissione disciplinare della FIFA non ha avviato alcun procedimento sulle fattispecie. Mentre all’incarto aperto dieci giorni fa per l’invasione di campo di un tifoso tunisino - sempre con lo stemma palestinese - non si è al momento dato seguito.

Un ramoscello d’ulivo a Israele, comunque, le autorità qatariote lo avevano già allungato alla vigilia dell’evento. E ciò dopo aver interrotto qualsivoglia relazione diplomatica ed economica proprio in sostegno dei palestinesi. Un riavvicinamento che - malgrado la condanna di Al Qaeda - si è tradotto nel ripristino di voli diretti tra Tel Aviv e Doha e in circa 4.000 carte Hayya concesse a giornalisti e tifosi israeliani.

Da Tel Aviv a un ambiente ostile

Tutto molto nobile, già. Peccato che sui social media siano già diventati virali i video di giornalisti rimbalzati da svariati tifosi arabi, al grido «qui siamo in Qatar, non siete i benvenuti» o «Viva Palestina». Il problema? Beh, come cercato di far notare da un inviato israeliano, Emirati Arabi, Bahrain, Marocco e Sudan nel 2020 hanno sottoscritto con Israele i cosiddetti accordi di Abramo. Accordi di pace. Un’intesa forgiata dagli Stati Uniti di Donald Trump e, per molti esperti, il segno del cambiamento dell’ordine politico in Medio Oriente. Sì, il rafforzamento delle rispettive economie (attraverso il turismo per esempio) e il contrasto alla strategia nucleare dell’Iran, avrebbero preso il sopravvento sulla risoluzione del conflitto israelo-palestinese e sulla espropriazione dei territori contesi. Scegliendo di festeggiare con la bandiera della Palestina, tuttavia, i Leoni dell’Atlante hanno lanciato un segnale al Governo marocchino. Quasi fossero dei portavoce. La distensione ricercata ad alto livello con Israele, detto altrimenti, non si sta riflettendo nelle dimostrazioni e nelle parole colte a Doha. Per il professore di storia e politica contemporanea all’università del Qatar Mahjoob Zweiri, il tenore extra-sportivo del Mondiale ha offerto un chiaro messaggio non solo agli Stati Uniti e a Israele, ma anche ai leader arabi che sembrano intenzionati a oscurare la causa palestinese. La presenza delle bandiere negli stadi - ha ricordato al Washington Post - «non è stata organizzata dagli Stati, ma è qualcosa di genuino che proviene dal popolo stesso». E l’accesso a una storica semifinale potrebbe servire per urlarlo ancora più forte.

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