I Grotti di Cama
Situati tutti sulla sponda destra del fiume, hanno conformazioni di vari tipi: alcuni sono completamente interrati, altri sono semplici costruzioni con tetto a due falde, altri ancora presentano un piano superiore. Per sottrarre queste interessanti strutture al progressivo abbandono, nel 2004 è stata istituita una fondazione che, dopo anni di ricerche storiche e di restauri, nel 2009 ha consegnato alla popolazione e ai visitatori un nucleo recuperato e arricchito da un percorso didattico.
L'itinerario
La passeggiata porta attraverso un antico sentiero verso il nucleo medievale di Cama, dove si trova anche la chiesa dedicata a San Maurizio, documentata fin dal 1219 e dietro alla quale si coltivano numerosi vigneti.
La frana preistorica con i suoi grandi massi è ben presto visibile e così i grotti, che sono per la maggior parte privati. Il percorso, ben segnalato, è costellato da tavole esplicative con informazioni dettagliate in italiano e tedesco.
Lungo l’itinerario si trovano tre grotti ancora aperti al pubblico: il Grotto del Paulin, il Grotto Milesi-Belloli e il Grotto Bundi alla Bellavista. Il primo appartiene da generazioni alla famiglia Prandi. Il grotto Milesi-Belloli è anch’esso di lunga tradizione. Mentre il Grotto Bundi alla Bellavista, ha ripreso l'attività nel 2018 dopo un ampio rinnovamento che ha tuttavia permesso di mantenere intatta la parte vecchia (dove si conservano formaggi, vini e carne secca).
In questi tre grotti si possono gustare salumi nostrani e il tipico prosciutto crudo della Mesolcina, formaggini freschi e formaggi stagionati nella frescura delle cantine, accompagnati da vini della Svizzera italiana. Vengono proposti anche piatti della tradizione come polenta, coniglio, capretto e in autunno si servono piatti e specialità a base di selvaggina.
I segreti dei grotti
La ricerca che ha preceduto i lavori di recupero edilizio ha messo in rilievo molti aspetti interessanti. Come procedevano i nostri avi nella costruzione di un grotto?
Partendo dall’osservazione che i grotti erano posizionati sulla stessa sponda, sopra un territorio creato da una frana preistorica, si è capito che il luogo ideale era determinato dall’esistenza di uno sfiatatoio: uno spiffero di aria fresca che corre tra gli anfratti della montagna, negli spazi tra un macigno e l’altro. Quello stesso spiffero che si sente ancora oggi, mettendo una mano davanti alle aperture di un grotto, e che mantiene la temperatura del cantinotto costante tutto l’anno, tra i 3 e i 12 gradi. La ricerca dello sfiatatoio («fiadiré» in dialetto) era perciò essenziale per la costruzione del grotto e probabilmente ci si aiutava con la fiamma di una candela per l’individuazione del soffio d’aria.
I lavori di recupero hanno reso possibile la comprensione di alcune tecniche artigianali messe in atto nei secoli scorsi: quali i legni usati per la carpenteria (quercia, castagno, noce), che tipo di intonaco, com’era la struttura del tetto, che tipo di piode lo costituivano. È stato così possibile recuperare una manualità ormai scomparsa, riappropriarsi di tecniche particolari di cui si era persa traccia.
Documenti e testimonianze di anziani hanno confermato che i grotti erano di proprietà privata ma il terreno circostante era adibito ad uso comunitario e che l’utilizzazione privata in qualche caso diventò pubblica, con l’offerta a pagamento del vino eccedente il bisogno familiare.
Inoltre si è capito che il locale al piano superiore non era destinato alle attività domestiche o conviviali come noi oggi possiamo immaginare, ma era lo spazio in cui si vinificava: infatti, la temperatura, di qualche grado più alta rispetto al locale situato al piano inferiore, permetteva l’inizio della fermentazione dell’uva. Nel locale sottostante si custodivano le botti per la conservazione del vino.
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