Il gran maestro del sake in Ticino: «Nel riso, come nella vita, bisogna togliere per arrivare all’essenza»
Il ristorante di Felix Lo Basso di Sorengo ha accolto lo scorso 3 ottobre un incontro inconsueto: un viaggio nella cultura giapponese del sake con Sato Jumpei, sesta generazione della brewery Tatenokawa, fondata nel 1832 nella prefettura di Yamagata. Davanti a un pubblico attento, nell'evento organizzato da Kitsune Trading - azienda ticinese specializzata nell'importazione di sake premium -, il produttore ha raccontato la filosofia della sua famiglia, che da quasi due secoli trasforma il riso in un linguaggio di precisione e pazienza.
«È la mia prima volta in Ticino», racconta con tono gentile. «Ho visto il lago, le montagne, e ho pensato subito a Yamagata. Anche da noi l’inverno è freddo, l’estate calda, e in mezzo c’è il riso che cresce bene. Mi sono sentito vicino a casa». Nel suo sguardo scorre un confronto naturale tra le due terre: «Nel nostro territorio convivono tre elementi — montagna, pianura, mare — e credo che anche qui ci sia un equilibrio simile. Forse è per questo che mi trovo bene».

Tatenokawa è una delle realtà più rispettate del Giappone. Dal 2008 produce solo Junmai Daiginjo, la categoria più alta del sake, ottenuta da riso lavorato fino al cuore amidaceo e senza aggiunta di alcol. «Abbiamo scelto una strada difficile», spiega. «Perché togliere è un atto di fiducia. Più lavori il riso, più il gusto si fa limpido, silenzioso. In quell’essenzialità, il tempo parla da sé». L’esempio più estremo è il sake Komyo, ricavato da chicchi levigati fino all’1 % del loro volume originario. «Per arrivarci servono più di due mesi di lavoro continuo. Da cento chili di riso ne rimane uno solo. Ma in quell’uno c’è tutta la nostra idea di purezza: lavorare tanto per ottenere qualcosa che sembri semplice».

Durante la serata, Sato guida il pubblico tra tre sake che raccontano tre gradi di profondità. «Il primo Seiryu Junmai Daiginjo, al 50 %, è la base, il più accessibile: morbido, lineare, adatto a chi si avvicina per la prima volta. Lo Stream Red, al 33 %, è più sinuoso, con profumi di frutta matura e una consistenza vellutata. Il Malolac infine è nato da un lievito che genera acido malico: è più acido, più fresco, quasi cremoso. Ricorda un po’ certi bianchi europei, e per questo può piacere molto anche qui».

In un Cantone «vinocentrico» come il Ticino, il paragone è inevitabile. Sato lo affronta con rispetto e misura: «Non siamo concorrenti. Il sake non vuole sostituire il vino, ma aggiungere una voce alla stessa orchestra. Dove il vino è struttura e acidità, il sake è equilibrio e morbidezza. Si può bere freddo, a tavola, anche in abbinamenti nuovi. Credo che in Ticino ci sia la sensibilità per accoglierlo».
L’artigiano di Yamagata non ama parlare di tecniche come di dogmi, ma come di gesti quotidiani. «Usiamo riso coltivato localmente», spiega. «Il terroir per noi è importante quanto per chi fa vino. Ogni produttore conosce i campi, i contadini, le stagioni. È un lavoro di comunità, non di industria». Poi riflette: «La tradizione è la spina dorsale, ma senza innovazione si spegnerebbe. Ogni tanto bisogna provare qualcosa di nuovo, come il lievito malico o la sbramatura estrema. La curiosità è parte dell’identità giapponese».
Alla domanda su quali piatti ticinesi immagina accanto ai suoi sake, Sato non ha esitazioni: «Formaggi e funghi, soprattutto. Nei formaggi c’è acidità lattica, nei funghi una leggera amarezza: due direzioni che il sake può abbracciare con eleganza. E poi i pesci di lago, più magri e delicati. Hanno quella purezza che amo anche nel riso».
La conversazione scorre come il liquido nei bicchieri: con naturalezza. «Il sake è un modo di pensare il tempo», dice piano. «Non è solo una bevanda: nasce da centinaia di piccoli gesti, ognuno necessario, nessuno superfluo. Quando lo bevi, devi dargli il tuo ritmo. È un dialogo, non una dimostrazione».
Infine un consiglio pratico, pronunciato con la stessa calma con cui versa: «Frigorifero sempre. Non ci sono solfiti, quindi serve freddo. Una bottiglia aperta, ben tappata, può restare perfetta anche per due mesi. Il sake ha bisogno di attenzione, non di fretta».
Prima di congedarsi, Sato torna sul tema che ha guidato la serata: l’affinità fra Ticino e Giappone. «Siamo lontani, ma abbiamo la stessa cura per i dettagli. L’artigianalità è la nostra lingua comune». Poi sorride, guarda il lago che riflette le luci della sala e conclude: «Se chi è venuto stasera tornerà a casa con curiosità, con il desiderio di assaggiare ancora, allora avrò fatto bene. Il sake non si spiega, si scopre».