Il mondo senza Giorgio Armani non sarà più lo stesso

Impossibile immaginare un mondo senza Giorgio Armani, eppure questo è il mondo di oggi. La scomparsa a 91 anni dello stilista più famoso di tutti è anche quella di un imprenditore sempre a distanza di sicurezza dalla finanza, fidandosi soltanto della sua creatività e del suo lavoro. Ma al di là delle celebrazioni, postume, chi è stato davvero Giorgio Armani?
Partito dal basso
Intanto Armani è stato uno dei rari uomini di successo venuti davvero dal basso, senza biografie aggiustate e senza alcun tipo di aggancio (nel suo caso padre contabile, madre casalinga) con il settore in cui faranno grandi cose. Nato a Piacenza nel 1934, aveva vissuto un’infanzia segnata dalle difficoltà della guerra, superando anche un grave incidente. Quando aveva quindici anni la famiglia si trasferì a Milano in cerca di fortuna, con Giorgio a frequentare il liceo scientifico, senza distinguersi. Dopo il servizio militare, l’abbandono degli studi di medicina, vari passaggi a vuoto e poi la sua strada trovata lavorando alla Rinascente di piazza Duomo, a Milano, come vetrinista, occupandosi in pratica sia si allestire le vetrine sia degli acquisti. In questa veste di impiegato creativo, ma certo non di aspirante stilista, Nino Cerruti lo conobbe e ne intuì il talento e il gusto, chiamandolo a disegnare la linea uomo Hitman. Quel ragazzo di Piacenza con tanti sogni aveva svoltato, ma a metà anni Settanta non lo conosceva ancora quasi nessuno.
Il coraggio
Nel 1975, con il supporto del compagno e socio Sergio Galeotti, Armani fece il grande salto fondando il suo marchio e debuttando con una collezione maschile che rivoluzionò la moda. Le sue giacche destrutturate, con spalle morbide e proporzioni innovative, ruppero con la rigidità tradizionale diventando un simbolo di libertà. Però senza che lui facesse il fenomeno, il guru che vuole per forza stupire o peggio ancora prendere in giro i suoi clienti: questa la chiave del successo di Armani, che ha superato il mezzo secolo e mai ha conosciuto crisi. L’anno successivo la sua collezione femminile introdusse un guardaroba androgino, pensato per una donna indipendente, capace di riflettere l’emancipazione degli anni Ottanta che lui aveva «sentito» molto prima degli altri. Insomma, il non più giovane Armani democratizzò il lusso.
American Gigolo
Ci sono pochi dubbi sul fatto che Armani sia diventato icona mondiale nel 1980, grazie ad American Gigolo. Nel film diretto da Paul Schrader il protagonista non era soltanto Richard Gere-Julian Kaye ma anche lo stile di Armani. American Gigolo portò Armani fuori dalle passerelle, facendolo diventare un marchio globale conosciuto anche da chi non segue la moda. La scena in cui Julian-Gere sceglie il suo outfit, allineando sul letto giacche, camicie e cravatte Armani, ha davvero segnato un prima e un dopo, e ancora oggi è ipnotica.
Versace
Armani non si è mai sentito in competizione con altri stilisti perché lui, senza falsa modestia, riteneva di rappresentare lo stile giusto. La leggendaria amicizia-rivalità con Gianni Versace riguardava quindi due mondi, più che due creativi. Armani («Eleganza è intelligenza e misura» una delle sue frasi preferite) rappresentava l’antitesi dell’esuberanza barocca di Versace, ma entrambi condividevano l’ambizione di portare la moda italiana al centro del mondo. Un aneddoto celebre risale ai mai abbastanza rimpianti anni Ottanta, quando i due stilisti si trovarono a competere per vestire le star di Hollywood. Durante un evento a Milano, Versace scherzò con Armani, dicendo: «Tu vesti le mogli, io le amanti». Armani rispose con il suo tipico aplomb: «Eppure, Gianni, le mie mogli sono sempre eleganti». Questa battuta, raccontata da lui con un sorriso e che noi abbiamo edulcorato (i termini non erano proprio «mogli» e «amanti»), rifletteva il loro rapporto: una rivalità giocosa, due mondi diversi.
Olimpia e Capannina
Un grande stilista non è per forza un grande imprenditore, ma Armani è stato entrambe le cose e una volta raggiunto il successo ha intuito che lo stile non poteva ridursi ai vestiti. La sua genialità si è quindi espressa in ogni ambito: dalla creazione di Emporio Armani, la linea giovane lanciata nel 1981, alla haute couture di Armani Privé, fino ai progetti di interior design con Armani/Casa. La sua influenza si è estesa oltre la moda, con iniziative come l’Armani/Silos, il teatro progettato da Tadao Ando, e l’acquisto dell’Olimpia Milano, con l’amico Adriano Galliani che lo aveva invitato a salvare il club, sull’orlo del fallimento. In 21 anni, prima come sponsor e poi anche come proprietario, Armani ha messo nella pallacanestro circa 210 milioni di euro, vincendo sei scudetti ma anche collezionando figuracce in Eurolega. Impossibile elencare le attività e gli investimenti di Armani, che ha sempre detestato la Borsa e rifiutato ogni proposta di quotazione così come l’ingresso in azienda di soci ingombranti, peggio ancora se non italiani. Qualche sfizio però se lo è tolto anche nel finale, come con l’acquisto della Capannina in cui andava da giovane: quella Forte dei Marmi diventata eterna con Sapore di mare non esiste purtroppo più, ma Armani era convinto che l’ottimismo di quella Italia anni Sessanta fosse il motore giusto per l’economia e in definitiva per la vita.
I VIP
La moda vive di visibilità, ma il rapporto di Armani con i VIP è sempre stato paritario. Al limite erano loro a cercare lui, mai viceversa. Con alcuni il rapporto è andato oltre. Con Richard Gere, ovviamente, ma anche con Cate Blanchett, una delle muse più fedeli, Julia Roberts quasi sempre vestita Armani agli Oscar, Leonardo DiCaprio diventato amico dopo The Wolf of Wall Street, Jodie Foster, Diane Keaton, Renée Zellweger, Anne Hathaway, Jessica Chastain, per non dire Sophia Loren, che da oggi è l’italiano più famoso nel mondo. In ogni caso Armani, maniaco del lavoro, è sempre stato abile a surfare sul vippismo usando quel calvinismo alla milanese che era il suo vero modo di essere. Poche vacanze, al massimo weekend con pochi amici nell’amatissima Pantelleria, tanta ginnastica, tantissimo lavoro.
E dopo Armani?
E adesso? Armani non ha mai avuto figli e non si mai sposato, quindi la successione di un impero valutato oltre 10 miliardi di dollari è particolarmente complessa. Anche se lui aveva pianificato meticolosamente il futuro della sua azienda, mantenendo il controllo totale come unico azionista e stabilendo una struttura chiara per garantire la continuità del marchio. Secondo i documenti emersi nel 2016, e riportati da Reuters, Armani ha delineato un piano di successione che coinvolge un gruppo di eredi, tra familiari e collaboratori fidati, insieme a una fondazione benefica. Gli eredi designati sono (sarebbero) la sorella Rosanna, le nipoti Silvana, Roberta e Andrea, il compagno degli ultimi 20 anni Pantaleo «Leo» Dell’Orco, collaboratore di lunga data e braccio destro, responsabile della linea uomo, e la Fondazione Giorgio Armani, che detiene una quota simbolica ma è destinata a svolgere un ruolo cruciale nel preservare l’autonomia e i valori del marchio, reinvestendo capitali in cause benefiche e mantenendo i livelli occupazionali. Il piano di successione, dettagliato in statuti depositati a Milano nel 2016 e modificati nel settembre 2023, divide il capitale sociale in sei categorie con diversi diritti di voto, per minimizzare conflitti tra gli eredi. Gli statuti stabiliscono anche regole per nomine future dei direttori creativi e vietano quotazioni in borsa o fusioni entro cinque anni dalla morte di Armani, preservando l’indipendenza del gruppo, un valore fondamentale per lo stilista che ha sempre rifiutato offerte da conglomerati come LVMH, Kering e Stellantis. Tutto bello, tutto fatto probabilmente bene: ma senza Re Giorgio non sarà più la stessa cosa.