Moni Ovadia: "Lo yiddish, idioma dell'esilio"

Lo scrittore, attore e cantore Moni Ovadia apre mercoledì LuganoInScena
Laura Di Corcia
05.10.2014 08:17

LUGANO - Dell'yiddish, Franz Kafka disse molto, forse tutto (o quasi). Una lingua nervosa, che il popolo si ostinava a non cedere ai grammatici. Sulla stessa lunghezza d'onda, con la stessa sensibilità verso quel quid di ineffabile che questo idioma reca, Moni Ovadia si accosta a questo crogiuolo di lingue descrivendolo come un universo di fragilità ma allo stesso tempo di forza, come il paradigma dell'ebreo errante. In Cabaret Yiddish (in scena al Palazzo dei Congressi di Lugano, ore 20.30, prevendite presso Ticket Corner, informazioni su www.luganoinscena.ch), agli spettatori saranno presentati brani musicali e canti della tradizione degli Ebrei dell'est europeo alternati a storielle, aneddoti e citazioni. Un tuffo in una tradizione linguistica e musicale solo apparentemente lontana.

Signor Ovadia, come definire lo yiddish, questa straordinaria e per certi versi misteriosa lingua?

«Lo yiddish è la più compiuta, perfetta, commovente e struggente lingua d'esilio. Gli ebrei della Diaspora centro europea che si esprimevano in quella lingua erano popolo in tutto e per tutto. Ma senza terra, senza confini, senza fronti, senza polizie. Un capolavoro di popolo come hanno saputo essere solo loro e i rom. Ma lo yiddish non è solo una lingua: è lingua letteraria, lingua vernacola, ma è anche una condizione dello spirito».

In che senso?

«Lo yiddish ha bisogno di un'adesione interiore e al suo universo che non è solamente grammaticale e sintattica, ma spirituale. E di questa spiritualità fa parte un umorismo vertiginoso. Non a caso Isaac Bashevis Singer ha dichiarato: "Scrivo in yiddish, perché con questa lingua non si sono mai dati ordini ai militari"».

Lo yiddish è un miscuglio di idiomi diversi e proprio per questo porta in auge il tema del confronto con l'alterità.

«È una lingua assolutamente originaria, sconvolgentemente bella e grandiosa nella sua fragilità e le lingue che ha accolto sono in continua sospensione. Ma la cosa straordinaria è che lo yiddish continua ad aprire le porte! Sente ciò che si esprime in modo non traducibile e lo fa proprio. È una lingua anarchica che si nutre degli idiomi altrui ed ha eletto a proprio modello l'uomo fragile, perché lo trova spiritualmente bello».

In questa sua capacità di mescolare e di tenere aperto il confronto con idiomi diversi ricorda un po' la Svizzera.

«Sa cosa le dico? Anni fa ho portato a Basilea il mio spettacolo Oylem Goylem: l'ho recitato in tedesco ma usavo tutte le pronunce yiddish delle parole germaniche. Non ho mai avuto tanto successo in vita mia. Chi parla lo schwytzer-dütch (lingua che non capisco, ma che musicalmente trovo strepitosa) ha una specialissima sensibilità per la lingua yiddish».

Anche oggi essere ebrei è difficile.

«Lo è sempre stato, ma prima lo era a causa degli antisemiti, oggi lo è a causa degli ebrei stessi. Da quando c'è stata questa deriva nazionalista con la nascita dello Stato di Israele, il grande spirito dell'ebraismo è vertiginosamente decaduto. Non parlo di decadenza morale, non do giudizi di questo tipo: è tecnicamente decaduto. Moltissimi ebrei, che hanno sostituito la Torah col Governo di Israele, ragionano come i peggiori nazionalisti. E questo è paradossale, perché i nazionalisti sono sempre stati antisemiti, visto che l'ebreo aveva l'identità molteplice».

Una posizione netta come la sua deve causarle diversi problemi.

«Ricevo fiumi di insulti e maledizioni. Si tratta di gente che non accetta il dialogo e non argomenta mai. Avrei tutti i titoli per dirigere un teatro o un Festival, queste cose invece vengono affidate a persone meno qualificate: la mia presa di posizione non è l'unica ragione, ma è sicuramente una delle ragioni forti».

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